Il nodo disfunzionale del comportamento

Ho trovato, nel guazzabuglio del mio nuovo ordine mondiale, calzini spaiati e mutande ancora nuove. Penso intensamente che l’avvio sia difficoltoso, ma le informazioni che ricevo dai mezzi d’informazione sono di difficile interpretazione, tanto da sembrare fuori dal “bollo”. Pensavo di cambiare il nome delle cose affinché anche esse potessero mutare; in fondo, cosa siamo se non una stratificazione interpretativa del momento, più o meno presente? Nel mio lavoro, chiedo agli altri di modificare il senso delle cose, così da ampliare la creatività interpretativa. Per alcuni, è questione di vita o di morte se non riescono a farlo.

Una condizione che ci invita a riflettere sulla costruzione metodica delle abitudini. Tornando alle sequenze basilari, quelle che danno avvio a un movimento o a un pensiero, si struttura una volontà di cambiare ciò che è mutabile. Guardandomi intorno, noto che il colore del cielo è diverso dal solito; illumina la stanza a tratti, come a segnalare la presenza. I segni della luce sono affini alla nostra natura; non saremmo nulla senza l’apparire, o meglio, saremmo qualcosa che non è mai visto dai figli della luce. Tornando alle abitudini, è necessario far sì che vengano dimenticate affinché altre possano essere.

Nella continua stratificazione tra dimenticanza e ricordo risiede il nodo disfunzionale del comportamento che non ci rispecchia, e in alcuni casi lo percepiamo come qualcosa di estraneo a noi. Si apre così un conflitto all’interno dello stesso corpo, indivisibile ma percepito come frammentario. In questa consapevolezza, la cura diventa la conciliazione metaforica delle parti in un tutto armonico. Non è necessario impazzire ogni volta che si avverte una contraddizione interna; ciò che serve è permettere alle stratificazioni di disconnettersi, avviando nuove catene di significazione, adeguate di volta in volta alla realtà mutante del proprio divenire.

Uno dei pensieri più drammatici dell’Occidente è il seguente: “devo passare il tempo”. Questa costruzione di un tempo noioso deve essere occupata in qualche modo, riducendo a insignificanza l’unica condizione fondamentale che la vita costituisce. Se è cosa di poco conto, in questo spazio può entrare qualsiasi cosa, purché non ci siano punti di vuoto. Respirare accompagnandosi a se stessi in una dimensione che non considera il tempo, ma si concentra solo sulle sensazioni che il corpo percepisce nella collisione con l’esterno. È un invito a riscoprire la noia del sentirsi abbandonati in una deriva senza fini, cullati dal cielo stellato, che è l’unico a poter dare senso a ogni cosa.

Guardandomi attorno, cammino per questa strada che percorro quasi ogni giorno. A volte, mi colpisce uno spaesamento: d’improvviso, tutto appare in bianco e nero, con tonalità di grigio sbiadito, che conferisce un senso di antiquato. Continuando a camminare, avverto la presenza di tutti coloro che hanno attraversato questa via, rendendola unica, precisa e diversa da tutte le altre. La sensazione oscilla tra l’individuo e la moltitudine, come un messaggio che racconta la storia di tanti; alla fine, è il rimuginio dell’uno, ramingo e solitario, che crea il mondo a propria somiglianza, inconsapevolmente.

È un attimo! Poi la sensazione svanisce tra il rumore crescente del traffico e il colore sbiadito dallo smog, che ricompare in concomitanza con il battere del tempo, mentre la mia coscienza sembra assopirsi. Il relativismo delle affermazioni, o semplicemente il modo di osservare le cose, mi confonde al punto da perdere il punto d’appoggio dal quale, generalmente, ci riconosciamo come entità vive in quel preciso momento. Non c’è un’alternativa possibile per guardare il mondo in modo metafisico: è necessario perdersi nell’oscurità o nel bagliore del mare, dove ancora il senso è liquefatto.

Collezioni incomplete

Oggi è stato difficile mantenere il senso del dovere in una situazione di controllo burocratico nel nostro lavoro. In alcuni momenti, ci si chiede se le persone siano ancora al centro del nostro interesse o se prevalga ciò che appare nelle descrizioni formali. Un profondo senso di pesantezza e inutilità nell’impiego del tempo ha frustrato il nostro umore, portandoci a una dissociazione da una realtà incomprensibile. Da quando avverto questa sensazione di inutilità, cerco, nelle pieghe dei discorsi o negli angoli nascosti, l’entusiasmo che un tempo mi animava nell’osservare il possibile cambiamento in meglio delle persone.

Tuttavia, è da troppo tempo che non vedo o non sento una giovane brezza capace di scardinare le incrostazioni. Sogno ad occhi aperti la tastiera del pianoforte e la mia mano che scorre tra suoni in grado di riempire il vuoto. I suoni si trasformano in parole rassicuranti, dando vita a una canzone, esattamente come si cucina un piatto delizioso. Guardo oltre la coltre di tristezza che lo smog cittadino deposita sulle cose, immaginando il rifiorire delle condizioni originarie con colori vividi. In tutto questo, la catena delle conseguenze danza inesorabilmente, spezzando l’incantesimo e riportando lo strato di ruggine sul colore.

Mi muovo avanti e indietro tra un ufficio e l’altro, con la mente ovattata da un torpore causato dalla febbricola del doppio vaccino. Non riesco a ricordare, o meglio, non riesco a disporre gli eventi in successione. Così, tutto appare come un’unica immagine condensata in un’attenzione isolata. Oltre ai volti e alle espressioni, leggo le rughe di organi denudati dalla pelle. La disperata desolazione, priva di speranze, si manifesta per quello che è: un’imminente minaccia che non può essere scacciata fino alla fine dei giorni. Vorrei chiudere gli occhi e non ascoltare, neppure per un momento, il continuo lamento che si aggroviglia tra le mie intenzioni fino ad afferrare il mio corpo. La canzone, velata dal rumore di sottofondo, sale lungo le linee della percezione e, in un attimo, cattura il cuore in una stretta nostalgica. Tutto il tempo trascorso si condensa nell’istante in cui un solo ricordo appare con forza arrogante. La nostra strana natura umana ci porta a percorrere incessantemente passato e futuro, senza mai dimorare nel momento della presenza attiva. Vorrei dirti ciò che è già stato detto in un incrocio di vari me stessi, che in apparenza si sovrappongono, costituendo una identità.

Raschiare il fondo del barile è un modo di dire che indica la mancanza di comprensione su come affrontare le questioni. È il punto in cui la musica si silenzia e le danze vengono interrotte. Ora che buoni e cattivi si sono mescolati così bene, il gioco delle parti sfuma in una partita di tutti contro tutti. La fede è in conflitto con la tecnica, cercando di definire la nuova società monoteista da cui dipenderà lo sviluppo delle identità umane. L’assenza può rivelarsi l’entità dominante in una forma di trepida attesa, capace di appagare le masse mentre il diluvio imperversa sulle cose.

Fuori, nelle strade, tra confini visibili e invisibili, si specchiano sguardi muti, pronti però a trasformarsi in zanne. Un fiore cresce anche nell’abbandono più totale, testimoniando la possibilità della bellezza in ogni luogo e in ogni forma. Ma mi chiedo se siamo realmente pronti a cogliere, nel divenire degli enti, quel senso di eterno che potrebbe salvarci dalla schiavitù della volontà. Viviamo per ottenere sempre qualcosa o qualcuno; desideriamo ciò che può essere desiderato solo attraverso un effimero gioco che non produce soddisfazione, ma soltanto collezioni finite e incomplete, depositate in teche che ormai nessuno osserva più.

Significati appesi come grucce

L’insonnia allunga le ombre notturne in magiche conformazioni della mente, mentre ci si dilunga in chiacchiere durante la colazione. Con il sorriso che piano svanisce, riapro il libro dove il punto si stacca. La lettura apre il mondo e seziona ciò che è impossibile vedere con gli occhi; a tratti, lo squarcio sull’altro diventa me stesso. Se ripenso alla progressione del passato, certamente il libro è il compagno costante di una vita, la finestra sul mondo di sopra, su quello di sotto e su quelli invisibili. La parola magica, scritta con l’inchiostro, ha creato la vita nel suo apparire.

Scrivere mentre il fiume placido scorre tra emisfero ed emisfero, o tra orecchio e orecchio, in una landa di sconosciute visioni in cerca di apparizione. In attesa, le cose non dette fremono dentro agli anfratti dove sono contenute a stento e relegate. Così, la scrittura diventa una necessità e una forma di sopravvivenza per non essere sopraffatti dal peso inesauribile del non espresso: una valanga in attesa perpetua di schiantarsi nella presenza inopportuna dell’ignorato, quando, alla luce soffusa di una pausa, il pensiero è sopito e indifeso. Segnare il punto e la linea in un corsivo un poco sgraziato, frutto di una mano ormai dimentica della scrittura con calamaio e pennino.

Il respiro si acquieta nel riposo, mentre fuori continua la veglia sulle significazioni dei gesti che incorniciano la realtà. Vorrei, per un momento, essere esiliato dal peso dell’umano e diventare terra di tutti. Accogliere il legame che ci ha reso orfani di tutto il resto, che prosegue la sua esistenza senza più badare a noi. Le mie mani affondano nel fango in cerca dell’oro o del succo del sapere, che svanisce quando lo osserviamo. È una fuga dalla paura di perire, mentre ancora si cerca tra le macerie ciò che è più prezioso per la vita.

Davanti allo spettacolo delle rocce immobili, mi acciglio un poco per l’ignoranza che provo rispetto alla flebile attenzione che riesco ad avere in confronto. L’agitazione delle persone, in movimento, lascia inascoltate le creature ferme. La giornata inizia con una riflessione piegata dalla breve pausa che, a volte, il pensiero lascia inavvertitamente scoperta nella costruzione del mondo. C’è una ingenua pace nel gioco, forse inesistente, tra un dentro e un fuori, su cui si sono costituiti tutti gli oggetti. Nella giornata che mi attende, niente mi rende felice; eppure, sono pronto ad obbedire alla mia infelicità.

“In effetti, la scrittura che si dispiega sul foglio non ha toni allegri. La mia incapacità di trasmettere un sorriso attraverso le parole mi disturba in qualche modo. La sento come una mancanza o un’abilità non acquisita, e ogni volta che mi viene in mente una battuta di spirito, faccio fatica a sostenerne il significato e così la cambio. Alla fine, credo che ognuno debba fare ciò che gli riesce meglio; questo resoconto non è un racconto, ma piuttosto cento parole da unire al respiro in un piccolo esercizio di meditazione. Il cane, disteso ai miei piedi, dà il ritmo con il suo russare, mentre io mi perdo nel vuoto dei significati appesi come grucce.”

Sono confuso tra il sonno anticipato e un corpo che in questo momento di consapevolezza notturna sembra non voler più muoversi. Una mano scivola lungo il contorno della presenza che da sempre mi accompagna, e la vibrazione invade lo spazio che funge da intercapedine nella dualità. L’amore cristallino, capace di resistere a ogni intemperie, satura ogni spazio intorno a sé, come una foresta avvolgente e vitale. Un tempo è trascorso, rendendo pallida la pelle e schiarendo i capelli, che non volano più con il vento del giorno, ma restano raccolti dal soffio dell’imbrunire.

Il giardino di Epicuro

Nel sogno si scrutano le deviazioni emotive che instancabilmente viaggiano attraverso le immagini. C’è sempre una lezione da apprendere, se l’onirico viene ricordato e si prolunga nelle tracce del mattino. Da sotto la barra della linea di visione, le cose appaiono in una dimensione diversa e il ragionamento si ingegna a trovare una collocazione di senso al nuovo. In questo meccanismo di aggiustamento risiede il normalizzatore dell’ignoto: una forma di sicurezza che ci protegge dal panico. D’altra parte, però, questo stesso meccanismo rappresenta un limite, poiché non consente all’esperienza di arrivare fino in fondo, ostacolandone l’oltrepassamento per scorgere il barlume della verità.

Il mio ostinato tentativo di trovare una parola chiave che, da sola, possa aprire la montagna esanime del non senso. La magia nella razionalità si manifesta nel caparbio percorso di comporre un disegno che sembra sempre incompleto. La volontà si è ridotta a una semplice sopravvivenza, chiusa nella propria dimora, mentre all’esterno i lupi umani si danno battaglia. Un tempo stazionavo nella mischia e i colpi non sembravano scalfire il mio scudo; ma ora, che sento ogni dolore, anche uno sguardo mi affligge. Ritorno al punto in cui il ritirarsi è diventata la mia strategia e il cielo si è tinto di voci straniere, a me incomprensibili.

Rievoco le sensazioni svanite nell’aria che si perdono negli oggetti depositati dal tempo, come tappe di un viaggio. La casa è un insieme di cose dotate di significato, che giorno dopo giorno radicano una storia, la quale si trasforma in carne viva. Così, un’abitazione diventa la mia “casa fatta persona”, capace di rispondere alle domande e di porre quesiti. Oggi il sole si mostra, portando con sé la natura che si accende in un abbaglio piacevole, offrendomi nuove possibilità e un orizzonte più ampio. Osservo i miei occhi alla finestra, che scrutano una rara perla del futuro mentre vola via.

Se all’orizzonte l’inquietudine mostra il colore grigio della cupezza, ci si rintana nel proprio sguardo interiore, sfidando la sorte. È difficile accettare che qualcosa si sia rotto in modo irreparabile e che lo scarto verso un altro modo di vivere sia inevitabile. Si attende, come in una stazione, che la propria sorte venga reclamata nel furore del cambiamento. I popoli resistono con bizzarre ragioni per differenziarsi gli uni dagli altri, ma la forza della macchina bellica risolve ogni questione a carne viva o morta, e poco più. Le preghiere hanno cessato di influire nel momento in cui sono state tradotte in parola.

Trovo, cercando le impressioni sulla superficie delle espressioni, visi che parlano il linguaggio antico della natura. Oltre a me, un altro avanza in quella pianura fertile, ora trasformata in acquitrino fangoso. Nulla di ciò che un tempo illuminava il cammino è rimasto, sepolto dall’avidità e dall’ignoranza dei senza scrupoli, zombie viventi per un quarto, capaci di mangiare i propri stessi arti. Cala una certa frustrazione nel breve lasso di vita, in cui si desidererebbe incontrare un barlume di creazione da portare nell’aldilà. Un sospiro, e mi riprendo per bussare alla tua porta ancora una volta in cerca d’amore.

Con flutti di lava cadenti sulle sponde del sogno appena lasciato al chiarore del mattino, mi prendo il giorno così come viene. Ancora un poco intontito, compongo il quadro della consuetudine, dove dirigere la voglia di movimento. Se Epicuro ha scelto un giardino dove stare in pace, io muovo dall’interno del caos cittadino il desiderio che tutto si plachi e che il mondo si trasformi in lentezza. C’è sempre un eco in fondo all’orecchio, un doppio discorso che si dipana in modalità di “fuga”; una melodia che insegue se stessa, mutando nel tempo.

Traccie

Porto con me le cesoie con cui ho tagliato il vento pazzo dell’imbrunire, un attimo prima di perdere la ragione e lasciare che la sregolatezza si portasse via ogni cosa. Ho confuso la realtà con i sogni, che, venendo innanzi, hanno coperto il mondo. Ora il campo da gioco è cosparso di detriti che, se messi in ordine, raccontano una storia. Non necessariamente la mia storia, ma una narrazione generalizzata di eventi. La non normalità si aggira come un falco nei pregiudizi, pronta a ghermire l’incauto che, troppo spensierato, mostra i propri sentimenti messi al bando dal senso comune.

La salute mentale viene reclamata come un prodotto da comprare dal salumiere in una realtà che non sa più guardarsi in veste di protagonista del presente. Si costruiscono i confini della normalità, ma sono così effimeri da non contenere alcun valore. Lo sfacelo del buon senso è dovuto all’usura del tempo e alla mancanza di manutenzione di quel senso comune di comunanza che mantiene coeso un popolo. La tristezza a tinte grigiastre avvolge le vie del centro, sempre più invase dalla povertà e dall’insolenza dell’ignoranza. Mentre, in alcuni templi della modernità, gli intellettuali rimangono chiusi a rimuginare sulla storia che non c’è più.

Non solo fango nella città alluvionata, ma anche disperazione e sconcerto per la forza che sovrasta tutto, apparendo invincibile. Di fronte al muro, gli sguardi si incrociano e, per un attimo, riemerge l’antico segno della fratellanza. I torti subiti passano in secondo piano, aprendo spazio a un nuovo incontro con le cose sconosciute. Forse è solo paura il cambiamento, ma la coesione può ridare un filo di fiducia alle parole pronunciate e alle promesse fatte. A sera, se si ha la forza di farlo, si può alzare un bicchiere di vino tra discorsi d’amore e arte, nelle vecchie osterie che ancora popolano il mondo sommerso, in riva al vecchio fiume, ora calmo.

Se tutto funzionasse nel modo adeguato del racconto, le chiacchiere troverebbero lo spazio ideale per incastrarsi tra gli umori che si incontrano. Parole che, oscillando nel regno dell’insignificanza, sparano proiettili sulla imperturbabilità del momento. Così, mentre cerco un modo per uscire dal veicolo cieco delle cose dette, ammiro il paesaggio, che cela intorno a sé uno stato d’animo o un momento particolare tra la disputa semantica. Scrivere nel riverbero dell’ombra, mentre la luce naturale svanisce oltre i tetti, rende l’attimo poetico e commovente fino al pianto.

Probabilmente scrivo l’inutile dramma della rievocazione tra presente e ricordi, in una miscelata unione d’umori. Sento il peso della ripetizione, in formule variate continuamente ma con risultati sempre uguali. Ogni giorno incontro il fallimento e la disperazione, che cercano risposte che non vogliono ascoltare. È difficile che qualcuno accetti di cambiare, se non al limite della morte; e anche allora, non sapremmo nulla, perché l’inenarrabile ci sfugge.

Ora, il momento è arrivato: guardo oltre il limite di questa stanza, chiusa come una prigione, sbarrata dall’incantesimo della vecchiaia, che rende l’esterno minaccioso senza ragione. Vedo un volo oltre il limitare, che apra la strada verso le alture della poesia.

Tutti noi siamo in viaggio verso una meta ignota, lungo un fiume che trasforma incessantemente le parole in significati. A tratti, una narrazione prevale sull’altra e i colori variano in funzione dello sfondo. Non c’è nulla che permanga nella fissità della verità; le opinioni sovrastano ogni tentativo di cristallizzare il mondo in un unico assetto. Come al solito, pur essendo sempre un po’ diverso, faccio colazione nell’unico modo che mi accompagna in questi anni. Guardo fuori e mi accorgo che tutto si muove ancora nel flusso ininterrotto della città.

Il racconto

Il racconto si spegne in mezzo al fiato del silenzio tra una intenzione ed una perdita. Volevo finire la storia, ma: una sconcertante assenza di emozione ha fermato il cuore all’azione. I dinosauri sono passati dalla mia camera senza che mi svegliassi in questa giornata tra sole e pioggia con tratti di vento che scuotono gli utensili. Respiro in modo ansioso, è come se m’aspettassi un evento avverso, mentre vorrei essere felice ascoltando la musica ad un giusto volume. Riprendo la pagina e la parola sospesa per dire ora quel che va detto: una fine si ingarbuglia sull’uscio d’entrata di un altro inizio.

Nella stanza in penombra i pensieri sospesi ispessiscono l’aria, mentre da fuori la tempesta ha lasciato da poco la presa sul selciato. Giorni ingordi si trascinano lungo il filo costruito dal tempo, il quale impone un senso della progressione verso un dove. Osservo con le lenti sbiadite dall’usura i lineamenti della natura che si danno sempre rinnovandosi. In apparenza nulla sembra uguale nella successione dell’esperienza, le sovrapposizioni tra ricordo e presente giocano un ruolo creativo da reinventare la realtà ogni volta. Mi appisolo nel tratto di strada che ancora aspetta di essere percorsa.

La spinta verso il volo rappresenta un sogno latente per chi è legato al terreno, un’aspirazione alla libertà. Emanciparsi dalle ristrettezze del contesto fisico significa esplorare le fantasie dello spirito, librandosi nell’atmosfera. La narrazione storica è costellata di episodi di giovani uomini e donne che, con mezzi improbabili, hanno compiuto imprese straordinarie. Staccarsi dal suolo è già di per sé un atto di liberazione dai limiti imposti al corpo umano. Da sempre, l’essere umano è in lotta con se stesso nel cercare di definire un orizzonte oltre la propria visione. Gli aviatori del passato si ritrovano nel cielo senza tempo delle loro

Ridestandomi da un torpore freddo non ancora autunnale, mentre il sole, un po’ pallido, si rigira attorno alle cose, mi immergo in un’atmosfera creativa. Scruto il suono che implode nel timpano, falciando l’equilibrio precario del ricordo immaginifico del sogno. Piano e titubante, accolgo la realtà e ricomincio la conta dei giorni, intrappolato nella morsa del divenire. Un filo d’angoscia all’estremo del mio baricentro non mi lascia andare, e rimango titubante sulla soglia. Tuttavia, desidererei essere qualcos’altro, disperso in ogni dove e privo di legami. Un soffio d’umiltà cela la possibilità di stravolgere la consuetudine, rimarcando il solco del mattino.

La successione dei fatti impone un certo modo di ricostruire i ricordi, che non sempre coincide con la verità. Ricomponendo la storia, si crea una narrazione rinnovata, carica di altri significati. Il raccontarsi diventa quindi fonte di mutazione della propria percezione rispetto alle oggettivazioni delle presenze, sia interne che esterne. Da bambini, il mondo fantasioso sovrasta il concreto, svolgendo la funzione di ammortizzare la gravità della realtà. Col tempo, tuttavia, ci si perde sempre di più nelle cose, intrappolati nelle loro rigide denominazioni. Riaprire da adulti la dimensione fantastica del racconto diventa una necessità per riscoprire il valore del senso del vivere.

Dentro la casa, i rumori consuetudinari riportano gli animi a una collocazione comoda per la riflessione. Nella calma, il mondo delle idee si presenta come una proiezione o delle sollecitazioni in varie parti del corpo. La metafisica si concretizza nello spazio miope della visione o nella volontà di rendere tutto metafora del vedere. Tra gli scuri del mattino, le oscillazioni dell’ansia sono ancora irrilevanti, ma nella progressione del tempo, il dolore è destinato ad aumentare. Il timore antico degli dei si ripropone sotto forma di incertezza e minaccia, con prefigurazioni catastrofiche per i popoli.

Invecchiando tra i bordi

In questo spazio sfaldato dal continuo ripasso del pulitore, l’aria profuma di disinfettante, nascondendo le ambizioni del vissuto. Vorrei correre incontro al giorno che si intromette al buio, ma le persiane mantengono la tregua ed il tempo passa senza che nessuno si muova. Di fronte l’ austera affermazione delle cose che si animano e chiamano all’uso…ma oggi mi sembra tutto così triste che evito ogni contatto con possibili attività. Fermo nella semi oscurità leggo vecchie storie in ambienti lontani sommersi dal suono nella mia testa colpita dal tinnito. Mentre il cuore batte lentamente si apre il sipario sulla scena evocata.

Le torsioni dei muscoli mi suscitano il ricordo di una corsa quando ancora era possibile farla. Capelli al vento ed energia da buttare insieme al mondo che ruggisce incontro. Sono solo piccole idee, fantasie che si allineano al gioco della costruzione in pezzi che di volta in volta si incastrano tra loro. Sento intorno il rumore del lavoro, l’incessante volontà di risolvere i problemi. Sarebbe la morte se per un attimo il modo fosse compiuto così come è. L’ ingranaggio si fermerebbe ed il senso delle cose non avrebbe più senso d’essere. Tra un attimo rivedo lo sguardo tuo come fosse il primo.

“Nessuno ti chiede più niente invecchiando”, si diventa un corpo inerte privo di contenuto. Si perde il piglio aggressivo di imporsi sulla scena perché dal punto di vista maturato con l’età lo si trova uno spreco di risorse. Dall’altra parte oltre la facciata di pelle avvizzita c’è una montagna esperenziale che finalmente trova una collocazione arguta di senso. Al netto della paura di morire invecchiare è una risorsa in termini di elaborazione della realtà fisica e metafisica. Peccato che solo pochi sono ascoltati veramente per quel che hanno da dire, per lo più nella concezione di senso in cui tutti siamo oggettificati: così come tali nell’usura si viene scartati.

Nelle incombenze quotidiane si riducano i grandi afflati delle possibili costellazioni di senso. Rigirando il sottosuolo alla ricerca dell’ inconscio mi ritrovo a pancia in su a guardarmi essere da me guardato. Sorrido gentilmente a chi passando si mostra garbato, mi manca la cordialità genuina ormai persa per strada dal roboante presente, immerso nel neo fascismo. Come sempre cerco di fare del mio meglio ma sento che ciò dico è superfluo, perché appartiene al paese che non c’è o non c’è più in evidenza. Non c’è più nessuno che aspira ad essere buono per il bello.

Sfrecciando: i casolari spersi nei campi, appaiono come visioni fugaci e dal finestrino si può fantasticare di storie, che mai troveranno conferma. Libertà di immaginare e ricomporre il mondo, a seconda dell’umore, che al solito fatica a rimanere sopra la soglia. Non vorrei più occuparmi delle emozioni negative, che si espandono a ragnatela; adombrando i colori riducendoli ad insignificanza. Il peso del male alla fine apre feritoie interne mordendo la carne ancora viva. Dal finestrino di guida, resto spettatore del mare verde, che viene incontro. Posso immaginare la vita in ogni arbusto con i richiami dei propri abitatori.

Il peso della gravità negli anni si fa sentire e la membrana che mi rappresenta si china un poco per sostenere l’ incombenza. Il corpo cambia lasciando un senso contraddittorio tra fuori e dentro in cui la dissonanza diventa possibilità. Vorrei lasciare andare le formalità ed il dubbio della sussistenza per guardare più a fondo il cumulo depositato dalla stratificazione dei miei passi. Guardare con gli occhi del veggente le ovvietà disseminate lungo il viaggio per risalire alla fonte. Tirare un respiro lungo senza sentire il pelo dell’ansia che solletica l’inerzia. Aspettare senza aspettarsi “alcun che” in una sobria mattinata di settembre.

Personaggio d’agosto

Sono il personaggio che si muove nella parola scritta come un ospite fisso di una tela paesaggistica. La mia storia è probabilmente la storia di molti altri che si ripete nello spazio tempo dei significati umani. Muovo all’interno del possibile che mi concedono le cose che si formano davanti: “il dietro per le persone è un qualcosa che viene sempre dopo”. Nello stesso tempo vengo mosso da ciò che sta davanti in un insieme di significati che mi sembrano venire da una locazione interna al me stesso.

È come rotolarsi nella sabbia bagnata cercando di stare pulito, i significati comuni si attaccano invischiandosi nel groviglio quotidiano. Si accende una luce giallognola che rischiara il contrasto dello scuro al tramonto. Nell’abisso della riflessione giungono i richiami dei giorni trascorsi, che affastellati in più piani appaiono sempre un po’ divergenti. Incontro in questo crepuscolo alcune domande che si ripetono nel tempo, ma non richiedono risposta immediata. Sul bagnasciuga involontario a pochi passi dal divano si estende il modo fantastico dell’immaginazione. In sincrono con il respiro del cane si apre il sipario della novella con i trovatori che accordano il liuto… lentamente scivolando nella incoscienza.

La banale normalità quotidiana è tale perché così la definiamo, in realtà sotto il nostro naso passano costellazioni di mondi in costrutti di senso fuori dal nostro pensare. Il mito non ha mai lascito la casa del tempo, ha convissuto con la propria negazione permanendo negli strati suburbani alla periferia della città. Con uno sguardo infantile si può cogliere l’essere mitologico sopravvissuto a fianco degli uomini e donne che tristemente cercano di negare la propria natura. La violenza o il sopruso che è la stessa cosa mi stringono lo stomaco e mi ritrovo incapace di arginare l’onda del male.

Mi ricordo da bambino un sole caldo estivo amico, sotto cui scorrazzare nei campi senza timore, mi ricordo gli animali che non hanno mai portato un danno alla intraprendenza della fanciullezza. Ora che mi ritrovo barricato in case e uffici con sistemi di sicurezza per il caldo e contro la possibilità di invasioni di animali. Mi sembra tutta una pazzia come in un film dispotico e non so se è finzione o realtà. Questo cupo timore che ci vuole incatenati e dipendenti da oggetti sicuri, da parole rassicuranti, da nuovi Dei resuscitati per l’occasione.

Le pupille si dilatano per lo sforzo nel mantenere l’immagine composta nella fissità, perché è nel fermo immagine che il mondo si rivela. Un piccolo sforzo ogni giorno per dilatare il presente ed imparare a stare in quel nulla che è anche tutto. Soffia un vento tra le tende che smuove l’animo verso i ricordi sparsi negli oggetti. La casa come un rifugio resiste all’aria e sprona il pensiero verso un punto qualsiasi del tempo. Sono solo nel dialogo tra la notte ed il giorno in una confusa configurazione della vita e dei vegetali che sento in affanno tra le mura della città.

Anche oggi si apre il mistero di come la luce dà vita alle cose che incontra, un tocco che apre ad i vedenti lo spettacolo della creazione. Per tutti gli altri probabilmente ci sono altre vie per sentire, odorare, ascoltare i lineamenti del mondo. L’epoché nella fenomenologia cerca la non spiegazione di ciò che appare, ma poi rimane anch’essa prigioniera della razionalità schizoide umana che si deve oggettivare per produrre pensieri su sé stessa. Un tranquillo mattino in attesa di crollare sulle necessità del dovere, imposizione di una serie infinita di abitudini che alla radice rispondono ad i propri bisogni e non al corpo vivo.

Mondi fantasiosi

Un filo leggero lega una fine imminente, dalla punta pellegrina di una spada. I momenti del dramma, in parte già dettati dalle condizioni storiche indicano una agenda di continua desolazione. Forse il ritirarsi dal conoscere gli eventi può risparmiare l’umore dai bassifondi. Ma: il nascondersi alla fine fallisce nell’azione dello stanare ogni contrario, per riportarlo alla volontà della massa. Il corpo rimane l’unico incastro tra un mondo sognato e quello reale, ed al momento i giochi per le strade sono di una durezza e variabilità incomprensibili. Ritorno verso casa pensando che esiste la possibilità che il nulla abbia già inghiottito i passi conosciuti ritrovandomi nell’ignoto.

Una insolita ironia travolge il senso comune, all’ombra delle piante potate da incapaci che non capiscono il valore delle fronde. Una misera ignoranza che prevale in ogni ceto ha assunto le vesti di una casta protetta e lancia la propria moda nella consuetudine quotidiana. La rassegna stampa improvvisata dal tentativo di una costruzione del senso critico mi occupa parte del mattino. Cerco di disegnare un quadro in funzione di una previsione. Ma il tutto non funziona più a tranquillizzare il tempo che romba tra le mie orecchie e strappa i minuti annichilendoli. Questa corsa che una volta iniziata non ha freni né sosta ma un’unica direzione.

Per alcuni il senso del tempo è una oscillazione tra il caldo ed il freddo, di fatto l’esistenza è una continua oscillazione tra polarità che solo la morte al momento ha il significato di chiudere. Dalle grondaie l’acqua scivola sulle mie visioni riportando il corpo ad una frescura accettabile in questa giornata un po’ triste per la stanchezza accumulata. Il lavorare è diventata una dimensione opprimente in cui il dovere non si sposa con la passione lasciando le pareti insipide e le parole vuote. Solo in alcuni casi il guizzo della compassione mi riporta nella vetta della comprensione.

Una forma di dovere muove il corpo nello spazio che gli è proprio, definendo un perimetro inviolabile e oscuro nella necessità d’esistere. Così almeno sembra il muoversi quotidiano quando manca un senso preciso all’obiettivo. Le novità per un attimo creano un brezza leggera che infiamma la curiosità, ma la vecchiaia ridimensiona la portata del getto ad uno zampillo d’attenzione. Il caldo e l’aria marcita della città “ci danno dentro” a colorare le strade di un aspetto apocalittico, e la gente appare bizzarra in ogni manifestazione d’intolleranza. “Aspetto un bus alla fermata soppressa così il tempo può andare avanti senza di me”.

La banalità che raccolgo, come fiori appassiti dal selciato ormai sterile, mi confondono per la loro complessità. E’disorientante un troppo semplice che sfugge perfino al senso comune, è una immersione nella nullità del niente che si palesa come ovvio. In questa solitudine forzata dalla irruenza estiva che ci espone per le bizzarre forme che siamo. Intrattengo attraverso una vista a chiazze e reticoli immagini che mi porto poi nei sogni, nel capovolgimento del senso onirico in cui la verità si nasconde a tratti in bella vista. Tra i fiori l’erba spicca nella propria resistenza da fante di guerra.

Le varie spiegazioni che si propongono in file ordinate e sequenziali non mi dicono nulla del perché voglio sapere al posto dell’ ignorare. Ci si trova ad essere ciò che si è, anche se, non sempre combacia con la consapevolezza dell’esistenza. Non c’è una via d’uscita emergenziale per rivedere gli eventi. Non ci si stacca dalla propria carne per una differente sostanza inventata. In questo doppio salto carpiato dilungo l’attesa nell’indolenza del riposo, dimentico del vociare e dello scalpitare intorno che la macchina della produzione agita. Sono solo momenti di una riflessione che dilungandosi mi ispira a sognare mondi fantasiosi.

Una stretta di mano

La tua mano coglie un leggero tremore tra le labbra appena sfiorate, una intimità preziosa che appena gustata evapora nella nebbia estiva. Al limite del percorso dovuto per senso morale, ripiego su i miei passi a ritroso cercando almeno di salvare i ricordi. Compreso il tuo..mentre accarezzi le parole…che sfiorano il cielo…nei momenti in cui nessuno sta a guardare…ed il mondo sonnecchia. Sospensione del giudizio in cima alle scale, dove una porta apre alla chiusura, frammentando la sequenza di un interno. Un lento camminare in attesa sul ballatoio sospeso: sull’onda di un oceano che spruzza salsedine nel vecchio meccanismo della vita.

La rabbia si insinua tra muscoli e sangue come un bava virulenta pronta ad eruttare, non ha margini quando il corpo invaso deve trovare rifugio nello sfogo. La possessione malefica è una forma d’energia che divora da dentro proiettando all’esterno una guerra senza tregua. Mantenere un equilibrio tra le bombe esplose e inesplose è diventata la quotidianità del camminante silente che ancora rispetta la natura ed i frutti. Sguardo sospeso appena oltre l’orizzonte del proprio naso. In modo da lasciare spazio al bisogno di conversare nell’oscurità, con il linguaggio della notte.

Si può tranquillamente camminare avanti e indietro sulle mattonelle appena lavate al profumo di lavanda e candeggina e sentire una leggera inquietudine per la perdita della stabilità eretta. Pensieri che si affollano e poi svaniscono nell’ombra di una leggera fitta alla schiena: cultura contro acciacchi al riparo dalla calura pomeridiana. Quotidianità che si srotola nell’infinito mentre alcune sciocchezze vanno in scena per ritrovare il senso comune di una relazione. Sento da oltre il muro versare il te nell’ora della ritualità, ed un po’ di serenità si sparge sulla tavolozza pronta a dipingere il vuoto. Una coralità d’intenti è la forma che smuove il senso di questo andare e venire.

A tratti leggeri la mano segna l’aria in figure astratte mentre tutto sembra statico nella giornata intensa dell’estate. Le ombre faticano ad emergere dalla luce calda e afosa che sembra mettere tutti i sensi in difficoltà. Il mondo già dato, si prende ogni parte della scena, e per quelli che come me che vorrebbero trovare una fessura; a volte il già dato, diventa l’inferno. Sono fiori quelli che si intravedono passare lungo la retta dei ricordi, in un giorno qualunque, dei tanti, sommerso dagli eventi recenti. Un senso dì sollievo i colori ed i profumi nella fugace evocazione infantile.

Resta difficile sembrare ottimisti in una situazione di pesantezza in cui lo sforzo è quello di sovrapporsi e non comprendersi. L’agitazione per il senso di smarrimento verso le certezze che piano piano si sono sgretolate lasciando spazio ad i grandi distruttori. Poesie infrante lungo i sentieri di quel nuovo mondo che non vuole nascere, un rifiuto verso il predominio umano sulle altre specie. Un predominio che al momento è solo dettato dalla parola e costruito sul pensiero, per cui sorretto dalla fragilità di un essere che si crede provenire e ritornare nel nulla.

La fragilità della pelle divide due entità che indissolubilmente unite vivono divise. Frammenti delle Lodi mattutine echeggiano tra le porte aperte della chiesa. Sono questi i momenti di un transito tra spazio del tempo che sovrapponendosi si annullano. Un tempo si scavavano fosse per seppellire i morti, oggi si sparisce nel fuoco riducendo lo spazio che si occupa, poi…un domani si tornerà ad essere cibo per la natura. In viaggio verso una idea che possa decifrare l’incognita della presenza e assenza dell’apparire come interrogativo o come perpetua domanda che interroga in modo inesorabile la coscienza.