Ho trovato, nel guazzabuglio del mio nuovo ordine mondiale, calzini spaiati e mutande ancora nuove. Penso intensamente che l’avvio sia difficoltoso, ma le informazioni che ricevo dai mezzi d’informazione sono di difficile interpretazione, tanto da sembrare fuori dal “bollo”. Pensavo di cambiare il nome delle cose affinché anche esse potessero mutare; in fondo, cosa siamo se non una stratificazione interpretativa del momento, più o meno presente? Nel mio lavoro, chiedo agli altri di modificare il senso delle cose, così da ampliare la creatività interpretativa. Per alcuni, è questione di vita o di morte se non riescono a farlo.
Una condizione che ci invita a riflettere sulla costruzione metodica delle abitudini. Tornando alle sequenze basilari, quelle che danno avvio a un movimento o a un pensiero, si struttura una volontà di cambiare ciò che è mutabile. Guardandomi intorno, noto che il colore del cielo è diverso dal solito; illumina la stanza a tratti, come a segnalare la presenza. I segni della luce sono affini alla nostra natura; non saremmo nulla senza l’apparire, o meglio, saremmo qualcosa che non è mai visto dai figli della luce. Tornando alle abitudini, è necessario far sì che vengano dimenticate affinché altre possano essere.
Nella continua stratificazione tra dimenticanza e ricordo risiede il nodo disfunzionale del comportamento che non ci rispecchia, e in alcuni casi lo percepiamo come qualcosa di estraneo a noi. Si apre così un conflitto all’interno dello stesso corpo, indivisibile ma percepito come frammentario. In questa consapevolezza, la cura diventa la conciliazione metaforica delle parti in un tutto armonico. Non è necessario impazzire ogni volta che si avverte una contraddizione interna; ciò che serve è permettere alle stratificazioni di disconnettersi, avviando nuove catene di significazione, adeguate di volta in volta alla realtà mutante del proprio divenire.
Uno dei pensieri più drammatici dell’Occidente è il seguente: “devo passare il tempo”. Questa costruzione di un tempo noioso deve essere occupata in qualche modo, riducendo a insignificanza l’unica condizione fondamentale che la vita costituisce. Se è cosa di poco conto, in questo spazio può entrare qualsiasi cosa, purché non ci siano punti di vuoto. Respirare accompagnandosi a se stessi in una dimensione che non considera il tempo, ma si concentra solo sulle sensazioni che il corpo percepisce nella collisione con l’esterno. È un invito a riscoprire la noia del sentirsi abbandonati in una deriva senza fini, cullati dal cielo stellato, che è l’unico a poter dare senso a ogni cosa.
Guardandomi attorno, cammino per questa strada che percorro quasi ogni giorno. A volte, mi colpisce uno spaesamento: d’improvviso, tutto appare in bianco e nero, con tonalità di grigio sbiadito, che conferisce un senso di antiquato. Continuando a camminare, avverto la presenza di tutti coloro che hanno attraversato questa via, rendendola unica, precisa e diversa da tutte le altre. La sensazione oscilla tra l’individuo e la moltitudine, come un messaggio che racconta la storia di tanti; alla fine, è il rimuginio dell’uno, ramingo e solitario, che crea il mondo a propria somiglianza, inconsapevolmente.
È un attimo! Poi la sensazione svanisce tra il rumore crescente del traffico e il colore sbiadito dallo smog, che ricompare in concomitanza con il battere del tempo, mentre la mia coscienza sembra assopirsi. Il relativismo delle affermazioni, o semplicemente il modo di osservare le cose, mi confonde al punto da perdere il punto d’appoggio dal quale, generalmente, ci riconosciamo come entità vive in quel preciso momento. Non c’è un’alternativa possibile per guardare il mondo in modo metafisico: è necessario perdersi nell’oscurità o nel bagliore del mare, dove ancora il senso è liquefatto.