Nei campi si muovono colori, strappati dagli oggetti nella furia della pioggia, e si infrangono come miele nella fantasia dell’ osservatore, ben coperto e al caldo. È una dolce sensazione entrare nel contrastato vociare della natura che si scuote per risvegliarsi nella stagione inquieta; un po’ fredda ed un po’ calda. Sento dire dal margine del campo che il vento ha trovato la forza di protestare per la continua determinazione dei contadini di delimitare le colture, mi vien da rispondere che forse da sempre ogni cosa se delimitata cerca una via d’uscita dalla costrizione, non è maleducazione ma forse è la natura che nasce tutta insieme senza nomi né cognomi. Un bulldog francese rincorre le foglie a raso tra fila d’erba abbastanza allineate da formare una coltre d’assenzio in cui perdere la testa, e a tratti orecchie nere spuntano in vari posti diversi orientando la percezione in svariate dimensioni. All’orizzonte sbiancando si intravede l’inizio della sabbia che contiene il mare e il suono della burrasca si confonde con il frusciante insorgere degli alberi oscillanti nella pioggia, una strana passeggiata in compagnia del cane che sbuffa per la disapprovazione verso l’acqua ma impavido continua la sua corsa ed io la mia.
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Come sempre
Come sempre i compiti eseguiti con scrupolo sono abbandonati nel loro equilibrio, mentre il fuori posto risalta come una striscia di luce colorata sulla strada del controllo. Se non ci fossero discrepanze saremmo cechi ed il mondo continuerebbe a farsi beffe di noi, ed in parte è così, ci accontentiamo di vivere all’interno di un solco o racconto già narrato svariate volte. Una maglietta messa al contrario imbarazza nel cerchio delle cose che devono stare in un certo modo, mentre al di fuori può infuriare una bufera di sinonimi e contrari con armi di grosso carico che sfondano fronti e confini, è l’assurdità in cui stiamo per non scomparire nell’insignificanza dell’assenza dell’identità, come cozze aggrappate al significare delle nostre consuetudini che ci riportano continuamente a testimoniare noi stessi. Nelle classi scolastiche pollaio si addestrano futuri già passati che come unica possibilità creativa perseguono la devianza come scrupolo nella manifestazione di se, piccole cose che non mutano lo scorrere del fiume verso quel tracciato fatto di desolazione inquieta e codarda. In compagnia del cane resto nelle ore di solitudine a fissare il mondo oltre la cortina del reale ed a scorgere nella radura velata le sensazioni liberate dai corpi danzare sullo sfondo del destino.
Non si sa mai
Una nuova via si apre nel mentre dietro le case il sole cade lasciandosi avvolgere dalla stanchezza, il vociare della continua protesta è estenuante per il giorno che cerca di nascere nel silenzio dell’alba. Il profumo della colazione riporta l’attenzione sull’immediato, sul calore di chi sta veramente vicino nell’intimità del sentimento, anche senza parlare i vuoti sono riempiti con gesti e consuetudini mirando alla quiete. Si può girare per il quartiere restando silente tra le mille faccende che si susseguono come fili tirati da un’unica regia, nel mentre in compagnia del proprio cane si annusa ciò che resta della traccia del verde cittadino che difficilmente sembra vero, ma mostra in se un qualcosa di artificiale. D’istinto ci si ritrae sempre un po’ sospettosi, ormai l’abitudine ci ha resi accorti alla fregatura nell’essere derubati, la fatica di decodificare i segnali del volto perché non si sa mai.
Con Dio
Rimestare le immagini dei ricordi è come creare nuove conformazioni in cui le sensazioni predominanti sono collocate nell’attualità, è un gioco di invenzione in cui le immagini si deformano secondo il sentimento. Tornando verso casa ripenso alle cose lette e le parole si agitano nella confusione non trovando una collocazione, mi sembra di sentire il contorno concreto di una proposizione come un blocco che occupa spazio fisico e mi sfugge la differenza tra ciò che è e la sua descrizione. Mi confondo spesso in questi giorni in cui la temporalità mi sembra effimera come lo spazio che la contiene, naufrago dal mio stesso tempo per inoltrarmi nell’impersonale senza che muoia per essere altro. Saluto le poche ombre che ancora abitano il palazzo, prima di richiudere la porta dietro al cortile verso l’uscita e ancora la strada viene incontro con i suoni del risveglio, emersione quotidiana nelle incombenze frutto della consuetudine nella quale ci si sta come in un abitacolo forzato. Le discussioni echeggiano depositando polvere sul sofà per chi passando il dito nel tempo rende testimonianza dei fatti, sono illusioni le perenni questioni che sembrano sempre sul punto di essere risolte, concubine del trascorrere dei giorni finalizzati ad uno scopo. Pressante il bisogno di un valore da dare alle cose per sentirsene parte come se il semplice stare nel destino non bastasse mai, infuria sempre nel mortale quella smania di protagonismo come se realmente avesse una voce interlocutoria con Dio.
1929
Nella notte si fondono le luci artificiali in arabeschi sfumati dai sogni appisolati oltre la linea delle case, si cammina dondolando per attenuare i rumori nell’oscurità infilando le vie come viaggi astrali. Ci si aggira annusando la solitudine della notte mentre i pensieri rinascono nella forma della libertà. Si può incontrare qualche altra anima solitaria scambiando un cenno, un accordo in cui ci si riconosce la complicità, in questa aria si può tornare nella strada del 1929 in cui la foschia del carbone è a pieno servizio della macchina militare per cui i discorsi sono limitati dalle purghe punitive dei regimi. Il clima nel passeggiare è clandestino dentro gli antri in ombra dalle luci del giorno, sono da solo in questa notte, fuggiasco dal clima tetro degli oppressi o dall’oppressione della gravità che solca la crosta terrestre come un maglio.
Dentro la prigione
Dentro alla prigione si scuote il senso della permanenza in un angusto spazio personale minato dalle continue incursioni, una strettoia si apre verso l’esplosione del cielo a tratti nascosto dall’imponente struttura tecnica, pensata per soffocare la nascita di un modo diverso di concepire la violenza. Sbarre proiettate come ombre sul muro in cemento ricordano un bosco visto in contro luce mentre il silenzio spettrale cala da dietro la paura, i mondi si sfiorano nella fantasia creatrice di nuovi suoni che prima da lontano poi iniziano da vicino a risuonare nell’orecchio. La sinfonia fantastica inizia il corso della mutazione della materia, spazzando le solidità in forme armoniose che morbide accolgono i pensieri cullando il senso della libertà. Imprigionati ci si salva con voli senza carburante nell’immobilità del viaggio, arruffando contorni dei sogni spersi nei tetri corridoi, in sospensione per effetto del rallentamento del vivere quotidiano. Vorrei voltarmi per sorridere alla luce che evapora ma il meccanismo mi tiene a dritta in una unica direzione nell’antologia del divenire per essere per l’essere nonostante ciò. Nessun divertimento è permesso perché la prigionia è espiazione anche se si è innocenti per lo più, dinanzi agli dei affievoliti dalla tecnica scientifica, da cui dipende ormai l’etica del potere.
Da soli
Da soli o per mano attraversando il passaggio pedonale tra un prima sotto gli alberi dell’alba ed un poi tra il cemento che oscura il tramonto, passeggio nei discorsi sospesi tra una bocca ed un’altra cercando di stare là dove lo spazio vuoto resta impenetrabile al senso del comune dire. Di certo il vociare oscura le trame del giorno rendendo incomprensibile il destino che sbarra innanzi inequivocabile nella sua semplicità e forse per questo non visto. Esprimo un sorriso al corriere che porta messaggi anche se infausti per una peculiare forma di cortesia che è doverosa se si vuole perseguire una forma di bene, tolti gli occhiali si giunge nel posto dove la nebbia avvolge i contorni e si insinua il sapore della poesia in versi trascinati nelle vocali e sdrucciolati sulle consonanti. Finalmente un po’ di riposo nella saggezza inconsapevole dei poeti ridanciani per il tempo loro proprio fatto di disgrazie e drammi popolari, mi sento dire da dietro: dove vai così conciato senza nessuna remora per i passanti, sei scandalo nella cocciutaggine di credere al destino, rispondo che all’eterno non vanno prese le misure ma solo un sorriso lieve come una piuma che cade o vola a secondo delle prospettiva.
Dove sono le parole
Tu che dici dove sono le parole per indicare la strada di mezzo quella che non si riesce a guardare da dritta ma che inclinando l’asse del cielo là si può intraprendere. Dici in continuazione quanto è grande lo stupore per le malefatte delle persone povere, quelle che prive di senso si spingono a urlare in faccia a tutti il disprezzo della privazione sulle ali della violenza. Dici anche che la guerra pulisce le strade rigenerando dall’umiliazione della sconfitta il sapore buono del pane condiviso tra nemici passati, ed intono alle macerie già un brusio si alza con il vento nell’intento laborioso di aggiustare le cose. Ma dentro di me sento un dolore atroce che non passa, una fitta continua lungo le immagini della sopraffazione nella costante divisione del mondo in ricchi e poveri che non cambia mai nello schema del prima o del dopo guerra. Il debito nella forma morale è l’arma che sottomette singoli e popoli in una tenaglia mortale di schiavitù, e tu dici che le catene sono denaro che in fondo come la carta potrebbero bruciare per tornare ad essere nulla, come la cenere nel suo cominciare ad essere qualcosa d’altro.
Povertà
Al di sotto del basamento stradale una vita pulsa nascosta nell’abitudine dell’essere ignorati, sono concatenazioni di storie intrecciate a volte con la realtà ma che di solito rimangono nell’ombra. La possibilità della visione è molto limitata per cui oltre quell’attenzione si aprono altri mondi fatto di avanzi e scatoloni trascinati come gusci per rintanarsi, bambini già avvezzi a reggere l’urto della violenza ed a restituirla a tradimento. Gli oggetti della ricchezza si sposano con i costumi del sottosuolo diventando opachi e perdendo quella caratteristica che richiama alla modernità, unghie trafilate di nero con dita giallognole da nicotina si intrufolano nelle cose degli altri senza distinzioni. La privazione estrema rende lecito la rapacità verso le prede ignare della loro debolezza perché ricolme dei doni della pianificazione borghese in estinzione.
Beviamoci sopra
Torno perennemente a guardare dentro alla buriana dei pensieri contorti gridando un fanculo spiovente alle sagome tristi delle persone protese verso il macello dello spirito. È una gabbia l’ideologia immanente del materiale come pragmatica assoluta dell’esistere, scacciati dal mondo i sogni e le aperture fantastiche sulle cose invisibili che oltre i nostri occhi permangono nel silenzio abbellendo i mondi possibili senza il mortale. Le ragazze dicono che dentro al muro si sentono voci lamentose che accennano ad olocausti antichi; sorridono non pensando alla verità ma sorridendo tra loro riprendono il raccontarsi dell’oggi. Si dice scoprendo le carte, ho vinto con la fortuna del principiante, mentre da fuori lo stupore si riprende un momento di falsa ammirazione per una partita truccata. È così che le verità si lascia dietro sterminati deserti di incomprensione per parole che di fondo comune hanno solo suono e niente più. L’invidia cieca di chi perde sorridendo per poi meditare la vendetta per le generazioni a venire, gridando fintamente: è solo un gioco si vince e si perde beviamoci sopra.