La strada buia confina con il sogno appena iniziato in un giorno qualsiasi alle porte della città che fin dall’infanzia accompagna il narratore. I colori artificiali si mischiano alla natura rendendo lo sfondo surreale e per certi versi attrattivo, come la ragnatela di un ragno nascosto in parte. I sogni si pensano come desideri o personaggi pirandelliani, ma in realtà sono la prosecuzione della vita da stesi quando il corpo si ricarica. Narrando a falcate si gira veloci il mondo e ritorno, curiosando un po’ qua e un po’ la, si incontra parecchia gente e due parole scappano sempre in cordialità. Il narratore ha una barba rada e grigia che sembra ricordare un cespuglio all’inizio del deserto, un confine architettonico che getta una ombra di solitudine nell’aria di questo giorno particolarmente triste. Si sono spente le luci dell’Occidente con la chiusura dell’ avanspettacolo e degli scoppiettii pirotecnici, per lasciare la radura ad i mastini affamati che lasciano i mansueti sbrindellati a terra nel loro sangue. Rispuntano vecchi vocabolari con rispolverati vocaboli di razza, supremazia e genere. Un arabesco narrativo per descrivere un artifizio che esiste solo nelle case ricche del popolo, per gli altri la periferia è anche sinonimo di invisibilità e insignificanza. Un popolo maggioritario che si nutre con gli avanzi pagati a caro prezzo, infatti la sofisticazione dell’involucro è la magia di far sembrare prezioso ciò che è solo scarto. Il narratore narrato dai curiosi che si accalcano alla vetrina lungo il boulevard della città fantasma, uno spazio allargato nel tempo circolare dove le gesta si ricorrono lungo il circolo della memoria. Rifletto gli occhi nel vetro non riconoscendo nessuno degli occhi che appaiono, ma sento lo stupore di tutti nella calca, mentre si vuole a tutti i costi fare parte della storia. Il narratore spinge verso il dubbio se effettivamente vale la pena esserci, in fondo è come comparire ogni tanto dentro ad una cornice di un quadro rappresentativo in una sequenza finita dalla storia stessa che si vuole raccontare.
Tra persone sconosciute il narratore ritrova il proprio senso di stare nello spazio, si può guardare intorno senza remora di giudizio e osservare le cose come nuove. Sembra di essere davanti a vetrine che offrono le novità sfavillanti perché ancora prive del peccato d’essere possedute. Mille occhi si riflettano insieme ma nessuno che si guarda direttamente in questo luogo dove vige la legge dell’anonimato. Un solco lungo la linea della comprensione divide il cervello in due ritrovandosi sempre in compagnia anche se solo. Questo umano solipsisistico che non guarda in faccia a nessuno è ormai a scadenza non corrispondendo più alla natura che ingloba ogni cosa visibile ed invisibile. D’improvviso nascerà il nuovo inatteso scansando d’impeto il rimuginio dell’immobilità del pensiero. Ci sono vari attori che nel proscenio si discutono il ruolo per il primo passo verso la scena, i loro colori cambiano rispetto alle sfumature ombratili del grugno che lancia l’emozione verso il vento a chi sta davanti. Il recitare diventa la realtà del reale nel contesto degli oggetti posati nell’ordine di una legge, la quale alla fine rimane l’unica verità possibile per uomini rammolliti dal non senso del continuo movimento casuale. Mi ritrovo a volte con il narratore in bassifondi poco frequentati a parlare della possibilità del fare silenzio, mentre intorno alcune anime solitarie ascoltano le pause con golosa nostalgia del passato. Una comunanza di intenti che distingue fortemente i sentimenti che legano ed il modo in cui l’amore viene incarnato fa la differenza con il resto del mondo.