Attraversando la notte di corsa alcune idee cadendo e si perdono negli angoli bui della stanza, che…senza confini sembra una piazza. Mi ricordo dei visi del giorno che ora porto nella memoria in versione bianco e nero, adunanze fasciste si formano per pura ignoranza verso un tempo che non possediamo più. I piedi si muovono da soli paralleli ad un selciato solido, o per lo meno con una parvenza stabile per un animo perso in sussulti della pazzia. Chiamo a voce alta: ehi! Voi esposti alle intemperie ed al suono della tromba dell’inverno, in quali mani mettete la vostra vita? Risposta: in nessuno perché le ragioni dell’abbandono sono accurate al punto da essere insormontabili, ed il freddo rallenta ogni velleità di cambiare le cose in altro, meglio un orizzonte sotto il naso che speranze oltre la siepe della lontananza. Rimango accorto verso i segnali che da dentro mi spaventano come di un ticchettio dell’orologio in procinto di fermarsi. È da fuori quella chiacchiera inquieta che prepara alla polarizzazione delle opinioni pronte a diventare cazzotti in faccia nella paludosa sostanza rabbiosa. Capire il vento é un’arte del silenzio in cui esercitarsi, ma serve allontanarsi da tutti e questo è complicato se si è ancorati al lutto e alla speranza. Buio e rumore di pioggia nella sera che si estende oltre il quadrante della percezione, forse qualcuno si agita per la strada tra il freddo ed il fondo bagnato. Nuovi e vecchi poveri si tendono nella rincorsa di un posto caldo nella riserva di caccia dei predatori seriali. É una lotta per sopravvivere ed è meglio stare ignoranti in quanto aiuta ad essere più cattivi; e con meno remore a lasciare indietro qualcun’altro. Il sapere per i corpi schiavizzati è diventato superfluo da quando si sono persi nel dedalo delle immagini sovrapposte alla realtà. Racconto dell’avventura che si può fare solo da giovani, quando il corpo non sente acciacchi, dentro ad una piccola macchina, percorrere centinaia di kilometri solo per il gusto di parlare, mentre i paesaggi cambiano. Le sfumature del cielo scivolano via alla velocità dello sguardo, incantando e ammantando le parole di poesia. Percorrere città come luoghi incantati che si lasciano guardare con passione ed invitano a solcare i luoghi nascosti, le viuzze strette dove solo a piedi é permesso entrare. Un saluto ed è già intimità nei discorsi senza mai velleità di possesso, ma complice vicinanza. Un quartiere di Napoli tra discorsi da un balcone all’altro fino a trovarsi a tavola con persone appena incontrate, nei ricordi tutto è in bianco e nero come in fondo sono stati gli anni settanta del novecento. Nella povertà in quei tempi si trova la più raffinata cultura sulla conoscenza dell’umano rappresentata nella pratica della condivisione del poco che si possiede. Solo più avanti i mercanti hanno preso il sopravvento imponendo oggetti ed inutilità come riscossa del valore dell’essere umano. Riflettendo non c’è un meglio o un peggio nel tempo della storia, forse è la storia così come è intesa a non funzionare, anch’essa è frutto di una metafora di come noi pensiamo noi stessi, per cui scivola nell’ indeterminazione del sogno delle persone su se stesse. La luce del sogno che avvolge a tratti il chiarore grigio della realtà delle cose, divide in due la presenza della coscienza all’attenzione del senso del vivere. Nel movimento a tentoni nello spazio si urta continuamente ostacoli che rendono concreto il pensiero e la difficoltà di imporsi alla attenzione degli altri. Quindi svegliarsi al mattino é un capovolgimento del continuare a sognare con l’unica differenza della motilità.
Il cielo sotto il sole
Oltre il significato nella fila impettita dell’adunanza si nasconde un certo modo di stare nel mondo, ordinati per rango gli uomini si sottomettono al tempo che con rapidità li ingrigisce fino all’infermità per una sostituzione con altri uguali. Solo pochi hanno il germe dell’ eternità e comandano con invisibile tenacia le sorti di una certa idea delle cose in modo da mantenere perennemente il potere di sovranità. Questa storia in apparenza distopica non è altro che lo scorrere quotidiano delle idee incarnate nel lavoro per la trasformazione degli oggetti a cui di volta in volta diamo più o meno importanza. Oggi rivedo una sequela di “immagini ricordo” e stranamente un senso di estraneità mi coglie di sorpresa, è sempre un “come se” da qualche altra parte ci fossero altre possibilità, ed infinite ripetizioni con impercettibili variazioni che si espandono lungo un asse che non rappresenta il tempo ma la fissità. Ascolto il rumore del presente tutto intorno in una architettura dello spazio che mi rappresenta per quel che sono, il tutto legato da lacrime e sorrisi in una sinfonia emotiva che lega il sentimento ad alcuni ed non ad altri. Sento il richiamo di un dovere che da sempre mi schioda dalla coltre informe del sogno. Cosa dire? Piove un’acqua gelida e sporca: come catrame che invischia i capelli e la pelle, facendoti puzzare come un detrito da scarto di lavorazione industriale. Nessuno si chiede perché? È normale starsene rinchiusi in una prigione che avvelena e appesantisce ogni velleità di felicità. Da carnivori giriamo nella nostra città da predatori con il vigile istinto di fare del male: ogni cosa vorremmo che fosse altro da sé, così…sbranando il significato in frammenti, che dispersi poi non riescono più a ricongiungersi, lasciando dietro di sé ebbra ignoranza. Il cancello sbatte…prima o poi si romperà, l’ignavia nell’accompagnare un aprire e chiudere segnala solo un abbrutimento della socialità. Trascorsi i minuti nelle ampie dimensioni delle ore il rituale meditativo si sofferma sulle piccole variazioni e oscilla incantato nelle vastità invisibili. Un rintocco nella memoria il suono della campana che diventa l’immagine della chiesa durante l’infanzia, “chissà perché il ricordo è sempre d’estate in una via demarcata a metà dalla luce e ombra del sole di mezzogiorno “. Il percorso della vita coincide con quello della riflessione nei svariati incontri per capire l’umano, ed ora che la necessità si chiude in me, rivedo in una rallentata dimensione del tempo le stesse immagini con lo sguardo da pittore, attento alle sbavature del colore. Vorrei trovare il modo di sbaragliare il ragionamento per saltare oltre le strettoie della logica. Nell’abitudine gli schemi si ripetono convogliando aggregazioni in comportamenti per poi ripetersi in continuazione. Ci si ripete come a confermare in modo ossessivo una presenza che forse non è così scontata, anzi la forza dell’oscurità sembra sovrastare l’identità. Aspetto l’orario per la routine mattutina in cui inizia il prepararsi, l’andare, ed il fare il lavoro. Una ripetizione dei gesti che se da una parte rassicura, dall’altra crea un’ombra di infelicità da reclusione. Si dibattono da sempre intorno gli strascichi delle anime che hanno abitato questi luoghi, sono folate fugaci per chi ha l’occhio attento per il perturbante. Si può sempre imparare qualche cosa dagli antenati che sicuramente hanno dato nomi diversi alle cose. Alla fine il problema maggiore sembra proprio quello che diamo al termine “fine”, annientamento di un qualcosa che c’era e ora non c’è più. Il pensare possibile la riduzione in nullità ci permette di giustificare la violenza e lo sbranamento degli enti pensati come singolarità. Rimango solo in questo mattino con un pesante fardello sullo stomaco che allevio abbracciando l’altra metà del cielo.
Tornare
Il fiume in piena tracima verso i bordi, dialogando con il limite imposto dalle strutture pensate per ordinare il vento. Può succedere che una maggioranza sposti l’inclinazione del significato, se abbastanza caparbia da non cedere alle lusinghe ed agli effetti del tempo. Una marea che ad ondate stabili riporti il vezzo del ragionamento contraddittorio in una arena in cui prevale l’idiozia della cattiveria. I giorni a venire imbiancano le strade del sangue denutrito dalla fonte del sapere, un umano stretto nei confini della propria pelle senza la visione del tutto che circonda si appresta a dare battaglia per mantenere il proprio dominio. Ogni cosa si tramuta in simbolo per mantenere l’icona del passato, la quale non vuole passare, le città mutano in oceani di speranza dove le idee si incrociano fino a mutare le case in cortili. L’icona per centinaia d’anni è stata simbolo di una fede che testimonia quell’oltre che non è nel regno della vista, ma sta nel sottosuolo della percezione che permea ogni ambito del vivere e del morire. La fede ha guidato generazioni cieche verso destini incompiuti che alla fine dimentichi si sono persi in deserti di salmi senza senso, la fede sembra permanere l’unica certezza in un umano così incompleto e fragile nell’interpretare la realtà. Un gigante con le gambe d’argilla la credenza nel progresso da un luogo ad un dove migliore, situato sempre in un altrove immaginario secondo le aspettative individuali. Parlo con te che non mi ascolti, e dico: “quando bussi alla porta cosa t’aspetti che avvenga oltre alla soglia nel tempo d’attesa, in quel frangente che ancora puoi ritirare la mano e voltare i piedi verso altri orizzonti, cosa pensi? Quale scelta in libertà ti è concessa?”Rispondo: “nessuna, perché niente può accadere nel tempo sospeso tra un processo ed un frammento del ricordo che in un dato momento anima di vita una qualunque coscienza. É un eco il movimento che illude alla possibilità di volere qualcosa in alternativa a qualcosa d’altro, in verità l’atto o azione è sempre un passato già compiuto.” Forse nevica…di certo fa freddo e la pioggia gelata sterza il senso unico del camminare in questa che è una giornata difficile da abbracciare. Sono apparsi gli eventi che costellano la curiosità del gruppo, un nutrimento in vista del proseguo della propria esistenza, indicatori del percorso che una alla volta tutti ci accingiamo a fare. Timidamente le luci del Natale cominciano a velare il paesaggio solcato dalle automobili in perenne stato di aggressività, ma dai bordi ancora non si intravedono sorrisi, solo cupi pedoni che cercano di scansare le intemperie.
Il santuario della Costa San Gallo.
Tornano verso casa le parole non dette mentre arranco sul crinale che porta alla spianata dal cielo azzurro con poche nuvole attorno. É un ricordo nel presente di oggi che travolge il senso delle immagini che scorrono evidenziando una giovane grinta spesa a cambiare le cose. Il santuario in cima alla costa al di sopra del fiume che nel suo scorrere risuona nelle stanze in sotto fondo. Una comunità intorno ad una chiesa chiusa che di giorno lavora in una aurea di fede non cercata, i dialetti sono vari ma nell’affacendamento della cura sulla terra si uniscono in un solo significato comprendendosi. Condividere un tratto della propria vita in comunanza con altri che portano il sacco del fallimento o della sconfitta alla fonte di condivisioni che cambiano e riaprono la porta di un certo modo di stare al mondo. Giornate passate persi nel sentiero della natura in compagnia degli animali che aiutano a superare i fallimenti, l’eco del vento tra gli alberi mentre si sale sull’acciottolato e si distingue per ognuno il passo dell’altro. Il Santuario della costa una oasi meditativa ricca di storia e di pellegrini che hanno lasciato nell’aria il profumo di speranza che si rigenera ad ogni generazione. Vecchie panche in legno comode per la meditazione nella chiesetta del santuario, lo sguardo si può di volta in volta agganciare agli affreschi in penombra, e seguire l’orlo della crepa che suddivide il passato dal futuro. Con un po’ di pazienza il dentro ed il fuori si scioglie in questa atmosfera che risente della salmodia dei molti pellegrini che sono passati: per una supplica o semplicemente per stare dove è avvenuto un miracolo Cristiano. Seduto senza appoggiare la schiena il respiro entra, ed il respiro esce. Il pensiero sull’ inevitabilità della sofferenza suggerita dagli affreschi permea il mio respiro e cerco di portare silenzio nel dentro e fuori, tra passato e futuro. Quanti volti incontrati tra la Costa ed il suo dirupo verso il fiume, quante espressioni lette oltre il tratto superficiale della carne, segni che scavalcano il dire e entrano come fitte nel terreno delicato delle emozioni. Poi il dialogo ripara o cerca di guarire persone rotte ed un po’ storte che nello spazio si muovono goffe in cerca di una casa o semplicemente di un rifugio. La storia di quella comunità nel Santuario della Costa rimane una magia della spiritualità, i fatti, le giornate, i mesi, hanno seminato e ridato un senso ad un luogo abbandonato dove nel passato già era stato visitato dal tocco del divino. Oggi che le tegole dei tetti si sono scolorire e l’ottusità ha fatto qualche passo avanti non c’è più spazio per le fantasie magiche, infatti: le cose hanno preso il sopravvento sull’essere che le anima. La comunità come condivisione ha lascito il posto alla comunità dei protocolli e la magia o la meraviglia dell’incontro è stata sostituita dall’educazione alla guerra. C’è sempre un nemico da qualche parte pronto per essere odiato, l’opificio della malvagità sforna prodotti pronti all’uso in cui ogni essente viene trasformato in cositá. Il mio ricordo della Costa è una vivida sorpresa che nell’imbarazzo della fatica di oggi mi aiuta ad avere una prospettiva serena di quello che può essere fatto per superare la sofferenza. Non ricordo più la storia dell’apparizione della Madonna che é avvenuta alla Costa ma certamente in quel luogo non si rimane indifferenti al divino che avvolge il luogo. Non serve una religione per entrare nel mondo sospeso tra cielo e terra, anzi tutte le religioni hanno sempre impedito la religiosità in favore dell’obbedienza ad i precetti, ed infatti anche la nostra esperienza comunitaria si é conclusa sotto l’egida di una prescrizione.
Novembre 2023 (2)
Un refuso è come un ricordo che si attacca al viandante, il quale non compreso permane tra le pieghe del presente ed inclina lo spazio tempo fino a distorcere il futuro. Un assonnato personaggio occupa le stanze che a poco a poco si schiariscono nel primo mattino, pellegrino da un’altro mondo cerca di adattarsi agli oggetti che tutti i giorni gli vanno incontro, ma che tutti i giorni sembrano estranei. La condizione dell’erranza in vecchiaia rispecchia l’era della sera dell’Occidente, un crepuscolo descritto dai poeti, ma mai preso sul serio dai burocrati del protocollo. Nani grandi con finte gambe e grosse pance sono i veri extraterrestri che senza mai essersi staccati dal suolo risultano lo stesso completamente estranei a questo Mondo. Siamo sempre di primo mattino e le idee si spargono un po’ per tutta la cucina tra il profumo di colazione e alito notturno, anche da fuori i rumori rispecchiano l’inizio come tutti i giorni senza fallo. Scrivere lo stesso verso aiuta il narratore a riprendersi la scena, delineando tra le righe una personologica struttura che resista alle incurie del tempo, una caratterologia dei sinonimi e contrari che si impasta sulla tavolozza della rappresentazione. La pedagogia resiste alla tentazione di essere altro da sé fino a quando gli umani non hanno altra soluzione che stare insieme in gruppi per darsi una identità e una forma. L’educazione è un maglio più o meno libertario che scandisce le forme del futuro, basterebbe un investimento massiccio solo sull’educazione per cambiare le sorti del mondo. Probabilmente anche la filosofia è educazione, di fatto il discorso intorno all’essere non è altro che una riflessione sul come essere nel mondo, per cui pedagogia del come stare in relazione tra essenti. Va beh! Ci si incarta spesso con le parole e a volte sfugge il senso del perché si è scelto questo strumento per capirsi, probabilmente ci sono anche altri sistemi e nelle varie ere gli esseri avranno sperimentato altre soluzioni. Siamo nell’epoca della narrazione per cui anche se siamo in presenza e vicini quasi a toccarci, prevale la mediazione del racconto il quale nasconde ciò che sta nello spazio contiguo. Affidandosi al discorso non solo si affievolisce la percezione della vicinanza, ma si dimentica anche ciò che avviene nello spazio interno all’essere in cui il sentire si trasforma in metafora della narrazione. Spogliati dal gusto della creazione si naviga raminghi tra un centro commerciale ed un altro in una coazione alla ripetizione per un attimo dì ebbra illusione. Ritorno spesso al tempo passato per annodate concatenazioni d’eventi in una ricostruzione che restituisca maggiore dignità a ciò che faccio oggi. Ma, sfugge sempre più il collante che tiene le colonne del senso, il sopra ed il sotto, l’avanti e l’indietro, il grande è il piccolo e via così in un mare increspato di dubbi. Un mare che è sempre più presente nell’immaginazione, appunto perché manca nel contesto ordinario delle cose solide. Una schiuma che lambisce al risveglio i limiti dei pensieri scombinati dalla burrasca notturna, con il moto perpetuo dell’onda che richiama verso le profondità la coscienza inchiodata alla terra. Vorrei alzarmi ed andare altrove dimentico di ciò che sono, camminando come un’onda che forse è sempre diversa o forse è sempre uguale. Da poco ci siamo ritrovati in questo incrocio tra strade diverse che intersecano un paesaggio nostalgico, due parole dette così senza troppo meditarle evocano altre strade che non ci sono più. Ora ricordo di essere nella gabbia che l’educazione costruisce con la pazienza del domatore quando si appresta a preparare lo spettacolo.
Novembre 2023 (1)
Ossa rotte buttate sul letto di sbieco per dare forma all’inquietudine nella fissità della forma, è un tratto d’immagine emergente nel fondo di una comune serie di luoghi comuni. Disarticolata reliquia del mondo passato che invecchiando entra nella sfera futura che, una volta assaggiato ha già il gusto del passito alcolico. Un narratore qualunque conoscendo le fasi della malattia può prevedere i vari stati dell’animo che si intersecano a definire l’umore che inchioda la vita al corpo e questo ultimo alle parole della sintassi. Niente parrebbe vero se non fosse raccontato per quello che le parole vogliono significare senza per forza avere un legame con la carne. In effetti per un narratore tutto può essere detto senza paura di smentita essendo più duraturo il discorso di una singola vita. Altalenante me la sbrigo ogni mattino con un giudizio che poi mi porto appresso per il resto della giornata, di solito il significato è lapidario, non uso sconti per me stesso, essere un cinico comporta un sacrificio importante verso ogni possibile sbavatura della logica di dominio su di sé. Incontro volentieri chi non vuole farsi incontrare, uno scambio alla pari di sprezzante sdegno, nella bufera che imperversa negli animi sempre più folli nel reagire alla tragedia. Ma da sempre le comunità umane non sanno stare nella semplice dialettica della commedia in cui la violenza è esclusa, si evidenzia sempre un scivolare nella tragedia, dove l’odore del sangue infiamma i cuori e sguaina le spade per uccidere. Anche oggi da un qualsiasi programma televisivo si duetta in civetteria mentre su un altro fronte si esplode in mille pezzi. Tutto è tenuto insieme dal racconto che riporta per ognuno l’estraneità alla responsabilità, addossandola ad un sosia che funge da portatore del flagello, un doppio per ognuno che gira per il mondo con l’infamia dell’assassino. Il narratore mi rincorre sulla strada del quotidiano per indicarmi che la stanchezza del parlare può essere rischiosa per i pazienti che attendono parole. Come ci si può sottrarre al lavoro quando il proprio fiume è in secca? Gli chiedo. Mi risponde che non c’è alternativa perché la secca è solo un modo per scavare più a fondo dove l’acqua è antica e aspetta di essere raccolta. Ma, cazzo rispondo, non voglio scavare, ma stare con le mani in mano, basta rimestare brutture! Il narratore sorride mentre insieme abbiamo ripreso il cammino evitando la folla che si scansa di fronte al nulla. Quali sentimenti pescare nel mucchio dalla cesta in vimini antica posata all’angolo della stanza, un suggerimento al giorno per non notare la parete scrostata o la patina che ingiallisce le cose invecchiandole. Sei tu? Che suoni alla porta! Insisti! Ma non posso muovermi al momento sono senza arti perso nello spazio etereo del sogno immobilizzante, posso percepire il fuori ma solo come spettatore. Sono le stranezze umane in cui il mondo è diviso in varie sezioni: il sogno, il quasi reale, poi il reale, e l’irreale e infinite sfumature in cui mai nulla è certo ed è forse questa la cosa sicura. Il successo dell’ inconscio è insito nella natura stessa della percezione a grana grossa delle persone, per dare un nome a qualche cosa abbiamo bisogno di estrapolarlo dall’infinità non apparente su cui poggia la cosa, per cui per dare un nome abbiamo bisogno di scartare altri mille che non vedremo mai. Cechi e sordi in un mondo assordante che nonostante si palesi resta velato, il narratore scivola al mio fianco con non curanza verso chi guarda il suo aspetto indefinibile, in questo è maestro e sa confortare senza indulgere nelle preposizioni. Anche oggi le schegge impazzite agitano la superficie dell’animo imponendo un ritmo alla ruota del carro nella sfera mitologica delle emozioni.
Novembre 2023
Il sole a tratti si abbatte con sfarfallio sulle cose inanimate smuovendole dalla fissità indugiando per un attimo in un altro mondo animato da altri sconosciuti. Quando guardo dalla finestra tutto appare senza volerlo in una certa misura più o meno, anche se sento in fondo all’immagine una stonatura di una certa cosa che non torna, una sensazione della finitezza che impedisce a ciò che sta di farsi comprendere. Mi giro e la penombra ristora dalla piazza sempre aperta in un vortice di voci che si ripetono le stesse cose rassicurandosi. Per un attimo ripenso alla giornata di ieri e mi sembra finta, ho fatto ciò che ho fatto? Scorrono le parole dei discorsi quasi uguali a come sono successi ma sembrano già proprietà di altri. In qualche modo anch’io cammino sulla forza di gravità che mantiene unita la coscienza, ripercorrendo infinite volte le righe della scrittura che mi permettono una pur minima sopravvivenza. In questa che è la mia casa condivisa con i piccioni e cornacchie rimesto il tempo confuso della natura in fiaba. Sono le voci dal passato che da dentro costruiscono un senso alle conformazioni della violenza che si espande con una certa rapidità, sento grida dalla strada e ci ritrovo tutto il male del mondo, che significato ha insulare per banalità e poi riprendere un cammino uguale senza battere ciglio. Parlo con il mio cane del più e del meno con la certezza di essere ascoltato, ed a tratti capito e contraccambiato nella relazione, vorrei estendere a tutto ciò che è vivo questo discorso per superare la gabbia della specie che in qualche modo non ci permette di uscire dal racconto impostato dalle cose classificate. Il risveglio tuona tra un ormeggio ed il bussare delle onde in una semi realtà che solca le pareti e rifrange tra i nervi, temo le richieste che stanno in agguato lungo la giornata, ed il senso del dovere verso una sofferenza che ormai ha esaurito ogni mia capacità. Sogno qualcosa di leggero che tenga nei discorsi non l’urgenza della risposta, ma la possibilità di una attesa per guardare un po’ più in là, scaturire qualche sorriso per parole che non uccidono, anzi, evocare predicati che fanno venire fame e voglia di condividere. Defluisco attraverso le stanze quotidiane in una apparente incoscienza, il vento si fa sentire e rompe alcune cose per essere chiaro nelle intenzioni. Penso al gesto educativo come al primo movimento della bacchetta del direttore d’orchestra, un primo atto decisivo per ciò che succederà dopo. Il gesto che accompagna la parola seguita dallo sguardo possono agganciare una attenzione e portare la persona nel mondo della possibilità.
Ottobre 2023 (2)
Riguardo l’album fotografico al contrario ed il cielo come terra mi corrisponde meglio allo stato d’animo inquieto, un rosario, come smarrito, vicino alla finestra si perde in una triste occhiata, una preghiera riecheggia dal fondo di un ricordo, e per un attimo vedo ciò che sentono i mistici, quando il richiamo del mito si fa prepotente nell’animo altrui. Un po’ vorrei fuggire a questa condizione in cui la debolezza del corpo tende agguati continui alla stabilità dei pensieri, che ogni volta si spargano come piccioni spaventati dalla corsa dei bambini in una piazza di Venezia. L’acqua autunnale ha cominciato a martellare i tetti cambiando la musica alle strade, ed i colori ad i vestiti delle persone, ed in questo modo ha mutato la scenografia del presente. Sale da dentro la fiamma del camino e con essa i suoni del pianoforte in una intensa carica evocativa, per cui i personaggi appaiono alla scena, anche se, non chiamati. Si parlano intonando il richiamo antico dei mortali privi ancora della paura del nulla. I dialoghi sono solo battute per ridere dell’impaccio degli uni verso gli altri in una danza che ricorda il rito o la danza. Dico, a uno, che sono in casa mia, ma non sembra interessare, anzi risponde, che attorno a se rivede la prateria di quando poteva correre a perdifiato senza incontrare anima viva. In effetti nelle rievocazioni la temporalità si sovrappone o si sorpassano come in rincorsa intorno ad un tavolo rotondo quando spesso si cambia di posto. Dico ad un altro, se non è ora di lasciare la scena e spegnere la luce; ma mi risponde “picche”, riprendendo il discorso, da quando lui ed il padre macellavano bovini per chi poteva permettersi di mangiare carne. E ora pregavano tutte le sere per tutti gli animali morti inutilmente solo per essere trofeo in tavole inique. Questa è una serata strana in cui rintocca una luce portata sulle spalle da antenati venuti forse da altri mondi, ma della stessa sostanza nostra di quarzo e luce. Un leggero tremore percorre il corpo in contrasto con la fissità delle cose intorno levando dalle profondità dell’animo un senso dì perturbante solitudine. Penso a mia madre persa nei ricordi che mischiandosi hanno cambiato la tavolozza dell’identità, e penso a me sempre più inguaiato in una insofferenza per i pensieri di natura insicura e titubante verso le azioni concluse. Ora che le domande hanno completamente perso le risposte per cui alla stretta del discorso rimane solo la violenza per chiudere un discorso. Non sono violento per cui mi trovo a mal partito nell’arena e quindi cerco l’uscita se mai una porta esiste in questo anfiteatro.
Strattonato nella strada da passanti senza attenzione verso gli altri come se alla fine si potesse vivere da soli, dimentichi della dipendenza che abbiamo gli uni dagli altri. Smemorati cerchiamo l’oro dentro le tasche altrui non capando che forse è donandolo che si conquista un posto nella tranquilla terra della pace. Vivo in questa città da anni senza mai trovare la via di casa, solo alcune volte mi sembra di sentire un profumo nostalgico di luoghi già abitati, suoni di foglie cadute ci richiamano al ferro dell’impermanenza nello strato effimero del discorrere del più e del meno. Giro l’angolo ed il piccolo bar mostra l’insegna ammaccata come se una guerra fosse appena passata, fumatori per strada si scaldano guardando l’interno, portandosi in giro il tanfo della nicotina. Guardo il cantiere dell’autostrada che delinea nuove strade, nuove traiettorie e inesorabilmente cambierà la fisionomia del quartiere, per cui il senso di estraneità crescerà come le rughe lungo i volti in questa giornata che inizia. Un sacco pesantissimo pesa sulle spalle in una gara a reggere la posizione eretta, man mano che si scivola nella strettoia delle decisioni il chinarsi diventa evidente, ed il peso sovrasta la volontà. Difficile sfuggire al proprio corpo quando fa male ed intorno il pericolo incita la dissociazione. Una vita, un quartiere, una casa, e poi una stanza, dentro ad un pensiero che ha volte è formato da parole e a volte no. Sono forse io o l’altro quell’ombra che si aggira in spazi sempre più ristretti? Ma, non conosco più la trama che abbattendosi come un maglio delinea le nuove città, con le proprie periferie incombenti.
Ottobre 2023 (1)
Sono rimasto nella casa che invecchia in compagnia del narratore. Condividendo le stanze che nel tempo si raccontano da sé ciò che accolgono e che a volte lasciano scivolare fuori dalle finestre aperte. La spiritualità è una dimensione di infinita possibilità, e non va confusa con le credenze o la fede di un Dio piuttosto che un’altro, ma sia appunto una dimensione del possibile da lasciare nella completa libertà d’essere. Spiritualità come rimedio alla povertà della specificazione dell’ente che una volta definito diviene inciampo e motivo di conflitto perché la natura umana non è dotata di un sistema di rilevazione della realtà univoca e uguale per tutti. Da dentro le stanze si scorge il mare dei profughi che diventa speranza una volta trovato il coraggio di solcarlo, come un tempo gli antenati spinti sempre verso l’altrove da una indomabile forza della possibilità, navigando i mari e valicando terre. Si muove in ognuno di noi un Daimon che spinge la creatività oltre il limite per assaporare il gusto della brezza del mattino. Accarezzo le corde di un Liuto, oppure ascolto la vertigine del tramonto in cui il vento spinge il canto delle sirene verso terra. Ancora si parlano le voci mentre gli attori sono già andati oltre quella soglia che separa la stanza da altro non specificato verso il frinire del mondo.
Lo vedo mentre cerca da solo una propria possibilità di donarsi al racconto come un divo degli anni cinquanta in compagnia del disegno in neretto della Magnani. Una sorta di evocazione epica delle gesta eroica che hanno contribuito a rendere un popolo coeso in una intesa con la propria terra. Così lo vedo aggirarsi e sento l’esistere che si fa strada nel fermo immagine di questa metafora che come tutte le altre costruisce ogni mattino il mondo. Il narratore penso che sia un mio amico ma non è che dimostra segni d’affetto è più una costante vicinanza senza sfioramenti o afflati emotivi. Dentro a questo filo del racconto seguo anch’io da una certa distanza la giovane donna che per quel che gli è dato cerca una propria dimensione ed in un susseguirsi di sguardi in sequenza trovandoci nella casa a guardarci costituendo il ponte che va tra le generazioni costruiamo la storia. Una mano sfiora una mano che si dilata in una sensazione che riduce un divario…un russare canino riporta ad integrità una immagine sfarfallata degli oggetti nella stanza…in questo momento per tutti si pone la dura realtà. I copioni pronti per essere letti sono adagiati nei punti di presenza formando la scena che fra poco dipanerà il mistero. La magia delle luci fioche rendono i colori neutri e retrò in un gioco presente del passato. Il fulcro della storia è l’assenza in cui i personaggi non sanno capire essendo loro stessi assenti alla propria definizione di sé. Gli spazi sono vuoti fino in fondo, non c’è la possibilità di toccare una solidità, così che ogni movimento si traduce da qui ad infinito. L’occhio di bue incornicia il sentimento mentre una canzone risuona in tutti i tempi coperti dalla temporalità e lascia una scia di speranza nel vasto mondo della vacuità, fino alla fine della prova dove ognuno sarà ancora sé stesso. Questa scena interna girata dalla mente del narratore è una scappatoia al risveglio brusco degli strilloni che agitano le strade con notizie catastrofiche. Il vezzo ormai consolidato di usare la paura come monito del tutto, come un manga virtuale che radicandosi nel cervello rettiliano di tutti incattivisce e bolla le strade come un sentiero di guerra. Così che resta una disillusione trovare un posto franco per starsene in pace in una città che erutta veleno tra rumori e smog. Girando intorno alle mie certezze che scopro essere molto poche, volatizzate dal maglio percussore della chiacchiera che sempre più imperversa nella superficie dei natanti di ultima generazione. Osservo con sbigottita malinconia che la leggerezza dei discorsi o la superficialità delle frasi del dialogo fanno il paio alla violenza agita e indiscriminata con sentenze mortali inappellabili. Questo avviene sia che si tratta di una unghia incarnita sia che si tratta della sopravvivenza di un popolo intero. La stagione della vecchiaia tra me ed il narratore non ci impedisce di vedere la giovinezza e di capire il tempo presente che nel sotto suolo mostra la carne viva della verità inconfutabile in cui l’essere abita nella spensieratezza dell’eterno ritorno. In questo momento la casualità fa si che siano altri i popoli in fuga, mentre altri guardano da una certa distanza, ma la ruota del karma presenta sempre un conto a tutti indistintamente.
Ottobre 2023
Spaesato nel mio stesso discorso interiore che sovrasta i rumori di fondo, mentre lentamente raccolgo parole cadute e lasciate ingiallire dal tempo. Una malattia la vita che si risolve inesorabilmente con la fine accompagnata da mille altri inizi. Sono le vie coperte dal cielo nero che si tagliano nel lungo scorrere del fumetto in bianco e nero, le quali scorrono in modo cinematografico nella visione forse solitaria ma non certa per via dell’impossibilità nello stare da soli. Dal mare si rincorrono le voci delle altre terre con altre rive in cui sguardi scrutano e si incontrano senza vedersi perché la lingua che raffigura il mare cambia e scolpisce i corpi secondo linee divergenti. La salute mentale presa in sé non indica nulla di preciso se non una formula culturale di parcellizzazione di una funzione, la volontà di smembrare ogni aspetto dell’unità non divisibile è il problema che sta a monte della classificazione. È un problema in quanto non ci aiuta a comprendere la sofferenza e se possibile accettarla superandola. La distrazione per gli oggetti della mente che alla fine svelano la propria realtà fatta di parole le quali si affollano ed ingombrano il corpo dentro e fuori di sé. Vorrei tanto che qualcuno abbia cantato le ninna nanna al momento giusto che passando ha lasciato deserto un sentimento mai più recuperato. Le giornate placidamente distese accolgono storie che alla spicciolata rientrano dalla fughe verso lidi altrui. In loro compagnia lascio scivolare il mio tempo che zoppicando si lascia abitare come una casa vuota. Le parole rimbalzano e possono per magia cambiare significato ad ogni guizzo dalla parete spoglia dagli affreschi identitari. Il narratore oggi si è perso per un sentiero Orobico mentre in costa segue la linea che divide terra e cielo. Il narratore non volendo tornare fa in modo che mi tocca starmene in disparte ad aspettare che ci ripensi. Intorno il grigio dell’autunno sembra colorire gli sguardi che animandosi vanno oltre a ciò che è possibile guardare. Rincorro una giovane che dimentica di se lascia ogni cenno di vita ad una stazione di autobus, per poi adombrarsi in un silenzioso diniego mentre osserva i propri piedi nel punto in cui scorre l’acqua dentro al sotto terra.