Si riparte, dentro una cappa di notizie, giunte filtrate dal senso comune, il quale si mantiene in equilibrio tra la gente, nell’oscillazione emotiva polarizzata. Ritorno allo spazio intimo prima di iniziare ogni cosa, cercando di calmare la mente da i propri fantasmi prodotti dalla paura dell’ annientamento, un brusio ricorsivo dalla parte dell’orecchio destro. Manca solo la Befana nella sequenza delle feste per poi formalizzare la scrittura del nuovo anno, parola dopo parola in punta di piedi percorrendo la direzione temporale che data per scontata è il perno dell’esistenza e della fede dell’essere che nasce e muore in questo mondo fatto di cose. La scrittura avviene un po’ per caso, aspettando che una parola affiora ed in risonanza comincia a carambolare verso un’altra…credo che sia più una questione di suoni che di contenuti, è musica che si dipana su una linea melodica che equivale alla temporalità…dopodiché la verticalità armonica riporta il respiro verso l’infinità. La cura con cui ogni cosa ha un nome è il segno di quanto la parola sia determinate nella costruzione di una vita, ed è nella cura che dobbiamo insegnare le parole giuste per parlare a noi stessi…ed è nell’ avere cura dell’altro che dobbiamo usare parole che interrompono il rimuginio dannoso, altrimenti non saremmo nemmeno ascoltati, seppur nelle più elementari prescrizioni. La pratica riflessiva è una componente dell’auto pedagogia che nell’intercedere con il Tu risuona come nella biologia oscillano in sintonia gli stati d’energia. Sicuramente davanti alle nostre coscienze sono già rappresentati gli esempi a cui è possibile applicare il giusto mezzo, che rispetta l’essere ed il “buono filosofico” per la convivenza pacifica…ma di fatto si è scelto altro, e permane un mistero la scelta nichilista nella fede della volontà di potenza di trasformare ciò che è altro da sé. I pensieri in libertà rischiano di cadere fuori dal bordo, e per questo motivo risuonano un po’ stonati all’orecchio. Ma con una certa caparbietà si ripete la ritualità dello scrivere come esigenza ontologica, e nei vari piani dell’esperienza ritrovo i volti che mi sussurrano storie, in modo che ad ognuno resti un qualcosa di un qualcun’altro. Il gigante buono del quartiere si scontra con i soliti bulli che anonimi a loro stessi si qualificano per un ghigno beffardo e idiota che si imprime come un tatuaggio su i loro volti, già la carne dice tutto quel che c’è da sapere, il segreto è saperla guardare senza esser vista. Cerco di inoltrarmi nelle strade meno battute per assaporare il suono ancora squillante del nuovo, un vecchio vizio che a volte rende la quotidianità meno scontata. Guardando i particolari mentre si passeggia con il cane, i panorami si tingono di creativa novità, nel fondo dello sguardo appare il racconto della terra con i fili d’erba, le chiazze umide ad i piedi dei colonnati, con l’annusare dell’animale. Un risveglio inquieto per quell’ombra che segue ormai da parecchio, un presagio cupo che rimane nascosto nelle anse della vista o nei tuffi del cuore. A volte vorrei camminare oltre ma è praticamente impossibile lasciare indietro l’ombra di se stessi, nel vicolo cerco l’angolo migliore per lasciare un po’ del respiro che in eccesso scuote i polmoni, e vorrei passare oltre la materia che si ostina a tenermi inchiodato allo stare lì in piedi. Rivedo nel grigiore del giorno una luce fioca che compare a tratti oltre lo sbarramento delle nuvole, come un saluto che va e viene, portando con se un sentimento di rinascita che rimescola le viscere nella quotidiana routine. Ho aspettato il buio prima di riprendere a scrivere, oggi sono terrorizzato dal continuo fluttuare dell’abisso tra un passo a l’atro nel tremolìi dei muscoli contratti.
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La strada sicura
Trovare la strada sicura per comunicare è come cercare il terreno solido in una palude di sabbie mobili; questa situazione per un educatore è la normalità, quando si trova nell’ intreccio delle relazioni con i giovani. Ci sono luoghi in cui si racchiude disagio e cura per fare in modo che le cose restino circoscritte, ma come è possibile chiudere la rappresentazione del reale in funzione di una costruzione di ciò che dovrebbe essere la socialità! La tempesta è in arrivo, eppure già scompiglia il senso dei contrari rivoltando le cose, non accorgendoci che il parlare è mutato in un abbigliamento tra i tanti possibili, e per chi insegna non basta più conoscere le parole, ma serve ritrovare le origini dell’ ignoranza, quella brutta, sporca, e cattiva per dare senso ad un fallimento. Si ritorna al mito con una variante nella mutazione genetica: l’assenza di sentimenti e sensazioni polarizzate, ma uguali sia in un verso che dell’atro. Il mito come perenne gioco dove solo la morte:”come assenza”può concludere la partita; certo l’educatore si può sottrarre ma in questo caso verrebbe escluso dal game e quindi niente relazione. La Terra isolata dalla cosmologia si sta mutando in un campo da battaglia ed anche ì pensatori più nobili trasformano discorsi in fini, mete, processi. Una volontà di cambiare le cose o la fede che avvenga il cambiamento delle cose, così che anche il nobile discorso possieda il seme della guerra. Non si esce facilmente dal game in quanto ben congegnato dalla natura stessa del discorso, si può insegnare ad ignorare gli stimoli obbligati ed affrancarsi a più linguaggi non solo necessariamente quelli sintattici, ma provate a cogliere gli stimoli sensoriali senza nominarli in modo da non separare fonte e ricevente, così che, allargando la dimensione dello stare. L’educare è sempre stato figlio di un modello sociale, o progetto di società. L’invasivitá della comunicazione mediata dai strumenti tecnologici ha di fatto tagliato gli spazi silenziosi: isole deserte in cui costruire fantasiose creazioni individuali ed elaborare la propria libertà di essente. Il continuo frastuono ha addomesticato i popoli più esposti che sono anche i più consumatori di oggetti e energia, per cui i più dipendenti ed esposti al ricatto della perdita. Non basterà rinunciare agli oggetti per riconquistare la libertà, perché la conformazione delle produzioni dei beni hanno modellato il significato delle vecchie e delle nuove parole, per educarsi alla libertà sarà necessario rinunciare al linguaggio stesso ed al corpo che lo rappresenta.
Il vecchio
Finalmente il vecchio ha staccato la spina…da tutte le cose che danno un senso del dover fare…dopo una vita di rincorse e rimpianti…per attività che non gli sono mai interessate. Disteso nel proprio angolo preferito tra il calore della fiamma ed il parlare leggero degli abitanti della casa, riavvolge il corso delle parole in una narrazione coerente con il proprio destino. Come quadri alla parete, appende i pensieri, in modo da ricordare il chi ed il che cosa è, in questo inverno particolare, in cui le profezie apocalittiche trovano un nuovo spazio di popolarità nella chiacchiera da strada. Al confine dello specchio d’acqua, oltre il limitare della collina, sta la propria casa, in terra d’ardesia, dove gli uccelli governano la pulizia degli alberi, e sostano un po’ oltre l’orario…per compagnia al vecchio, discorrendo del giro dei venti, e delle acque dei mari che non trovano pace nei vecchi bacini antichi. È solo verso sera che con una vecchia penna nera riproduce il segno su carta, costruendo l’eredità del ricordo, per tutti quelli che abiteranno in un susseguirsi di nascite, la collina dentro lo specchio lacustre. Muovendosi per casa con fare casuale, senza una vera intenzionalità, si rigira tra le mani i concetti che nel tempo hanno fatto perno nelle dichiarazioni; si chiede: ma…effettivamente la verità è qualcosa di saldo, o è un nocchiero bendato che perso nella brughiera si spande in mille direzioni; oppure…quale è la verità su cui le parole hanno saldato le relazioni, e convinto i malati a guarire? Ora nell’ora del crepuscolo tutto sembra così incerto che la verità non sembra più tale. Di certo la verità ha compiuto tanta strada dalla Grecia antica ad oggi, ma…l’incontrovertibile non sembra avere casa nell’umano, anzi è l’incertezza il vero abitatore dei mondi, sia reali che inventati. C’è un tremolio che ad una certa età comincia ad essere presente nel contorno delle cose…sfumando nei bordi, si fa fatica a tenerle salde, così la verità, che non è incontrovertibile comincia ad emergere dalla risonanza della nebbia, per palesarsi via via più salda in un attimo di vera ispirazione. Il vecchio abita la propria casa come un santuario, parlando con gli oggetti e accarezzando le piante che curate dalla moglie crescono rigogliose…medita negli spazi del silenzio, quando da oltre la finestra si tacita la città. A volte sono i suoni della musica, che costruiscono l’arabesco che decora la parete, aprendosi sul margine più evanescente della fantasia, intonando una storia che si ripete nella mente, lasciando un segno tra una respirazione lenta e l’intenzione del lasciare andare, come insegnato dalla scuola Mahayana. Alla fine anche il vecchio conosce il segreto del respiro, non c’è altro oltre ad esso, tutto è riportato nell’aria che entra e esce in consapevole presenza. Aspettando il Bardo le cose diventano significanti per poi ridiventare cosen; si dice che: il passaggio da un luogo all’altro avviene senza memoria, solo pochi uniscono i punti degli eterni cerchi del destino, restando un continuum ininterrotto sul mare increspato senza tempo. Per quanto a volte vorrebbe piangere, il vecchio non riesce a lasciare che le lacrime irrigano i solchi delle rughe, scavate con sforzo nelle molte volte in cui la comprensione risulta difficile, ed i dinieghi sembrano porte sbattute in faccia. Anche un sorriso si fa ruga, ma dentro è dolce come il miele perché stimola ricordi, momenti in cui gli sguardi si sono intesi, ed il paesaggio si è colorato per un momento nel bel mezzo del grigiore, causato dalla bellicosità degli ingordi. Leggendo Céline nella traduzione in italiano si sgroppa all’inizio con fatica sulle parole, quasi un gioco cromatico descrittivo degli strati dell’animo, quasi un minuetto barocco…per poi addentrarsi in quella fogna scura della volontà di potere, bramato da i più sfigati con più agonia che risultato. È un viaggio in bilico tra accenti, e saltarelli, sulle parole che come grimaldelli scavano budella e fiele, in una panoramica di ciò che possiamo vedere allo specchio, se solo avessimo il coraggio di guardare. Posato il libro il vecchio riprende quel cammino siderale tra poltrona e fornello, per un te preso in piedi, mentre tra le tende guarda chi corre, fuggevole a se stesso, nel teatro dei lavori in corso. In questo fine anno un po’ di sole troneggia, rischierando le umili origini da dove sono partite queste parole..alcuni sentimenti sparsi, alloccati in vari utensili portati dentro alla vita…il suono presente nell’aria che non scolla mai per intensità…abiti appesi come figure d’osservazione ad i quattro angoli…qualcosa poteva andare storto, ma resta presente la sensazione di avere già visto più volte tutto questo…dentro la casa che invecchiando invecchia i gesti ed i passi, trascinati tra qui e là.
Natale…
Ci si incontra ogni giorno, con un piede già in fuga verso il dopo, che è sempre già passato. Non c’è un momento in cui si rimane nell’atto, anzi forse non siamo nemmeno capaci a coglierlo, infatti quando pensiamo di essere presenti lo siamo perché siamo arrivati da un qualche dove mentre nello sfondo c’è il richiamo verso un altro oltre. Insomma tornando all’incontro mi chiedo se effettivamente incrocio un altro essere come me oppure è solo narrativa, che come un vento lento si intreccia per poi biforcarsi ed andare via. Siamo toccati da mani invisibili che muovono i nostri arti come bambole di pezza, nel palcoscenico circolare che chiamiamo casa, alcuni di noi credono di essere più illuminati di altri, ma in genere sono quelli che stanno in equilibrio su i bordi. Tornare al respiro consapevole, mentre attanagliato dall’angoscia, i sogni si mischiano con la realtà, è questo il quadro dai colori scompigliati che mi si para davanti e fluisce denso nelle viscere, trasformando il corpo in un altare diacronico. Il gelo cristallizza le sensazioni restando sul punto in bilico tra prima e dopo, mentre respirando sciolgo il nodo che dal diaframma si è stretto al collo dello stomaco. Freud ipotizzò l’inconscio e ci mise di tutto come si fa con il fondo dell’armadio, quando non si ha voglia di sistemare le cose e nel tempo ci si incasina poi nel ritrovarle. Con coraggio si può anche entrare nell’armadio a sistemare un’altro armadio che avrà poi un fondo per ributtare il tutto per poi un giorno sistemare anche quello. Sembra una catena, ma il mondo delle spiegazioni è costruito in questo modo, una rimanda ad un’altra che via via rimanda all’infinito. Credo sia San Agostino, ma non sono sicuro, che ha detto che: siamo sospesi dalla mano di Dio sull’abisso, con lo sguardo rivolto all’orlo del vuoto, è così che la coscienza evita il terrore della caduta, mentre avviene per l’appunto come dice Freud: inconscia. Si entra nella settimana del Natale con il peso dell’età e della poca tolleranza per gli eventi catastrofici, una vita spesa nel sentire che le soluzioni ad i problemi sono a portata d’angolo, ma ancora l’angolo non s’é visto, praticamente il tutto si risolve come una giostra che gira in tondo, con i vari personaggi del momento che fanno il loro giro di promesse…e, poi il giro finisce per lasciare posto ad altre promesse. Il respiro riprende forma e come un plasma denso si stacca dalla massa, per entrare nelle narici, nel cammino per ricongiungersi alla massa riscuote sensazioni che colorano di calore l’intorno e mantengono in vita la materia. Un ciclo che si ripete inesorabile senza possibilità d’uscita, un soldatino dietro l’altro cade diventando piombo per lasciare che la natura cresca… ed un fiore oggi è sbocciato in sfregio all’inverno per indicare che l’anomalia è il segno della bellezza. I vari personaggi si agitano nell’incedere della burrasca che calando a valle ogni anno si fa sentire come un monito, per il troppo beccheggiare delle comari, che non intendono mollare l’osso della superficialità, fino all’ingresso inesorabile del dolore… per la fine. In fondo una storia vale l’altra per descrivere la realtà che si ripete come un numero periodico nell’anticipazione degli umori umani, per noi cattolici si entra nel fascio sentimentale natalizio, e forse per un attimo alcuni tirano il fiato sognando una terra migliore. Luci traballanti per occhi stanchi nell’ intermittenza dei fasci colorati dei neon, nella nebbia il gioco dell’illusione si fa intrigante e mischiandosi con le lacrime nell’umidità dell’aria il sacro vela la coscienza con il racconto delle proprie storie fatate.
Compleanno
Le pause si prolungano nell’ incontinenza dialogica tra superbi nel momento in cui cade la maschera del più riottoso. Inevitabile il guerreggiare con tocchi e affondi in un balletto che ha il sapore dell’antico, come antiche sono le parole della collera che mai svaniscono in un tetro racconto del divenire. In un banco a scuola da bambino attendevo che finisse, perché nulla mi era chiaro di ciò che succedeva lì dentro, basito ascoltavo parole, che il luogo mi rendeva estranee, solo all’aria aperta ricominciavo a capire. L’umiliazione come un’onda arrivava solenne dalla bocca spropositata e dal suono stridulo della maestra, nessuna possibilità d’evitamento se non accumulare la rabbia in scenari di vendetta raccapricciante. Crescere con il rancore nel cuore è stato un ostacolo ad ogni nuovo incontro, la diffidenza e l’aspettarsi il peggio hanno a volte prevalso sul lasciarsi andare alle oscillazioni dei sentimenti o delle sensazioni. È un riflesso che conosco bene quando davanti mi si para la sicumera difensiva dell’incertezza o al contrario dell’aggressività da parte dei corpi violati e in stato perenne di guerra inconsapevole. La prigione della memoria rende l’identità una rigida struttura che si stringe come una gabbia se non si provvede ad ampliare le maglie dell’immaginazione. Si può con una certa perspicacia sgattaiolare da sé ed inoltrarsi nelle fessure giocose della fantasia incontrando le creature impalpabili della natura. Tutto intorno compresi i sassi brulicano di vita, basta ascoltare quel che hanno da dire, senza l’arroganza nel pensare che la forma umana sia la più ambita. Di fatto, sono solo gli umani che affermano certe fesserie; per esempio: il mio cane non mi ha mai detto, che: “vorrei essere un umano”. È nel nostro modo di dire le cose, che sta tutto il dolore della vita, un po’ per volta il pensare con la sintassi ci ha fregato al punto da non poterne più uscire fuori, è come essere entrati in un libro di storia che non abbiamo scritto noi, ma che di fatto ci tiene inchiodati all’interno. Le rose fuori stagione campeggiano su i davanzali interni, un rosso vivo nel paesaggio in bianco e nero attraversato nella routine quotidiana. Ci si spegne un po’ per volta tra urla e maledizioni che iettatori del tempo si prodigano a lasciare traccia nei passaggi altrui. Mentre nuove scoperte ci portano nel paesaggio futuristico; è all’ordine del giorno il macello degli uomini su altri uomini, con le più bizzarre motivazioni. La maggioranza è costretta a correre per sopravvivere per cui non ristagna un pensiero contrario rispetto all’assurdità delle azioni, si permane sommersi in una sostanza stordente invisibile che avviluppa ogni pretesa di conoscenza che non sia indotta. Siamo fantascientifici nel voler dichiararci normali, come degli ospiti per caso nella brulla incoltivata semenza, mentre saltiamo come pagatori raffinati al concerto di Agnelli, riproducendo il sentimento che ha causato l’attaccamento al suono per il resto dei giorni. Un augurio per un nuovo anno è spalmato in vari sorrisi che nella ricorrenza che rintocca inesorabile ogni anno si affaccia all’inverno con un regalo caldo per il riparo quotidiano. Il peso dell’età è una sensazione gravitazionale che spinge verso il suolo in un inarcamento delle ossa che sentono maggiormente il richiamo della terra piuttosto che del cielo. Il tempo risulta sempre fuori sincrono perché le cose sembrano essere là dove non dovrebbero essere, e ci vuole sbattimento supplementare per rimettere in riga le postazioni. Un abbaiare di cani giunge smorzato dalle tende chiuse ed è solo il cane di casa che alza lievemente la testa per poi tornare nella torbiera del sonno invernale, sono piccoli movimenti che testimoniano lo stare dentro ad un discorso che si propaga all’infinito.
Il potere
Qualche spicciolo prestato senza tanti ripensamenti, scivolo via nel paesaggio lunare di questa e molte altre notti a venire. Scalpitio dei passi che rincorrendosi creano un’eco come i suoni di una fuga a più voci che si eleva oltre il senso dell’oscurità. Ricordiamoci i momenti che dimenticati segnano il destino, oppure il punto di svolta, senza pregi sfarzosi, che come pietre grezze ritornano mai visti nel dolore delle cose rimpiante. Continuando a scrivere segno la nota che in rugiada riveste le mura del mio abitare, perdendoti ti ritrovo nel riflesso che da sempre riverbera lo spazio dove cammino. Da sotto, il piano concavo raccoglie ciò che volevo, ma che non riesco a dire, allora smuovo la coltre della rabbia che con poco si solleva impetuosa, causando frustrazione ed ulteriore incomprensione, imparerò un giorno la gentilezza verso chi amo, sperando che non sia troppo tardi. Oggi la cappa della melanconia è pesante nonostante il sole che rischiara ha sterminato le nuvole grigie, i sogni come cozze rimangono avvinghiati nella sfera della vista, rendendo confuso il solito percorso dell’abitudine. I segni delle unghie riportano allo sfregio nel tentativo di fuggire dai personaggi che incombono senza esistere, scorro le pagine della narrazione per spostarmi in un altro luogo e in un altro autore. C’è desolazione in questa aria pungente che viene incontro con caparbia arroganza, sono le voci della discordia che oggi per strada lanciano vernice sull’inviolabile, è una vecchia storia raccontata dalle madri che sentono il cambiamento e la perdita di un posto sicuro fino a qualche tempo addietro. I figli non sanno dove andare perché le case sono macerie e i colori sono diventati bruni…pochi scorgono il disegno completo della mutazione della carne in grida, forse alcuni poeti distinguono ancora le ossa ricoperte dal succo identitario della terra in zolla coltivata. Questa mattina il gelo mi è entrato dentro con una zampata fulminea, non mollando più la presa, mentre aspettavo il cambio gomme, mi ha incuriosito vedere occhi stranieri nei bar guardare oltre il vetro verso una città, che un po’ spaventa…ho sentito il dovere di pensare alle sorti delle persone sperse, quelle che a furia di girare hanno smarrito il senno della direzione, quelle che a furia di guardare ciò che non trovano, hanno occhi veramente grandi e vacui. Non serve con loro spiegare alcunché ma solo vicinanza e compagnia, qualche parola gentile, un sorriso e la voglia di camminare imitando il passo. Il potere è presente in ogni forma nella relazione ed è la cupidigia volontà di volere che qualcosa d’altro sia diverso da sé, il buon senso ci porta ad essere sempre in moto contrario dal potere, in parte per il fatto che è inutile stare dalla parte di una potenza già in atto, ciò si configura come codardia ed accondiscendenza. Dal potere la ragione ha il dovere di prendere la parte opposta in quanto misura dell’ umanizzazione dell’agire, il potere per il potere è solo una espressione della tirannia di chi vuole sopraffare la complessità della dialettica nella relazione. Il mondo si agita sul filo del funambolo in una giostra di composizione e scomposizione della dialettica in cui riconoscere il proprio status nella realtà dei fatti concreti. La solitudine delle voci del dissenso si spingono lungo i deserti lasciati vuoti dai religiosi che hanno occupato le città con le varie forme delle loro croci e impiccato la diversità. Sono moltitudine a spostarsi da un regno all’altro increspando la superficie dei continenti in variazioni sul tema della razza e della forma del corpo, come prigionieri di un sogno si evade continuamente da ciò che è presente in un afflato a mezz’aria.
Ricucire gli strappi
La corsa verso un traguardo, è cominciata mentre me ne stavo a colazione e per effetto domino poi, non ho più visto un traguardo venirmi incontro, perché stavo sempre da un’altra parte. Ricucire gli strappi mi viene meglio così a bordo pista mi accontento di guardare chi corre, carezze e baci scuotono il torpore del primo mattino, mentre da fuori arriva l’aria gelida che preannuncia una nuova stagione del freddo. Mi aspettano come ogni giorno i volti che passeranno delusi per le risposte non ricevute, ma d’altronde come è possibile gareggiare con gli stupefacenti che già nel nome sembrano dire “ma dove cazzo vuoi andare’. Chi consuma droghe per un motivo od un altro è per contrastare un dolore che è profondamente legato “al starsi sulle palle” per cui cosa gli racconti? “Sopportati un po’ di più?” Va beh…niente…un po’ di cazzate al vento, a volte vorrei parlare seriamente di questo problema, ma non mi viene, è come se fossi travolto dalle mille narrazioni incarnate che come un treno sfrecciano imprendibili, lungo quell’asse inclinato del mio modo di guardare il mondo che mi lascia sempre fuori in un non luogo ad attendere l’inatteso. Il vapore del giorno si alza oscurando i vetri e nella luce soffusa del sole pallido gli interni sembrano umide caverne, sono saluti radi che ogni tanto si odono da oltre la recinzione, sembra che la gente abbia smesso di guardarsi e una nebbia di continua diffidenza avvolge i vari percorsi umani. È stancante guardarsi perennemente le spalle mentre la bellezza si nasconde nell’ opacità degli sguardi, smarriti dentro la bolla della perdita per le continue ondate di annichilamento dell’eterno, il Dio che oggi viene paventato è privo del fascino della resurrezione, un oggetto nelle mani oggettuali di esseri privi della visione della vastità che sta innanzi. Sono tutto orecchi mentre mi sbraccio cercando di farmi notare nella folla pelosa che varca i cancelli della fabbrica, come muli avanzano verso un destino di produzione, senza capire dove vanno a finire le idee man mano che il lavoro avanza. A volte dalla catena si eleva un sermone che non c’entra nulla sul momento, ma poi ripensandoci si inverte la rotta e qualcosa si capisce di tutto quel baccano tra montare e accatastare. Andavo in motorino alla mattina presto sulla strada dissestata dove le fabbrichette si stendevano uguali, posto abitato solo al suono della sirena del mattino e della sera poi solo i guardiani abbruttiti da caffè e alcol. Ci rimanevo in quel luogo con la morte nel cuore, facendo mansioni ripetitive e stranianti per quel che era il mio modo di pensare. Ora che l’immaginario ha preso il sopravvento attraverso lo schermo nulla è mutato per il corpo che rimane in appalto ad i monopoli del capitale produttivo, mentre le menti vengono munte dal suono della libertà immateriale. Prima domenica di dicembre con la pioggia che si fa sentire dalle tegole di un tetto vecchio e di solito abitato da piccioni stanziali, leggo il giornale che mi dice o suggerisce una mappa per il mondo, onda anomala nell’artico, un vulcano spara a quindici kilometri d’altezza un rutto gigantesco, di conseguenza i giapponesi temono uno tsunami, e via via altro che si condensa nel mio neurone interpretativo. Mi rivolgo al cielo che vedo di rado, per via della forza di gravità, che ha reso il capo pesante, con tendenza a formare una gobba verso i piedi, ormai credo che riconosco le persone non dagli occhi ma dalle scarpe, è così che il tempo scorre rimpicciolendo il mondo in funzione dei sensi che si restringono intorno agli organi vitali.
Domande e risposte…ma…preferisco il silenzio.
Da dentro le bare semichiuse la ricerca degli indizi continua nel riverbero dell’oscurità che improvvisamente riversata da ogni luogo si impone nello scenario dei fatti, dagli sguardi amichevoli di vecchia data le persone raccolte sembrano riconoscersi e si scrutano le scarpe per non invadere gli spazi altrui. Forse un delitto si impone con la veemenza dell’interrogativo che cerca supplichevole una risposta ad i convenuti, i quali silenziosi attendono il trascorrere il tempo della creanza prima di lasciare muta la scena e tornarsene a casa. Parlare di ciò che si conosce, ma mi viene difficile solo pensare a questo conoscere cosa sia, le rotule vanno in pezzi, come le mani che un po’ alla volta si chiudono su se stesse. Domande e risposte è il mio mestiere, ma preferisco il silenzio, così che di solito non lavoro ma ascolto e guardo, i corpi che mutano in rigagnoli di sobria ruggine che si dilegua, ma si sa che la ruggine ha il brutto vizio di tornare. Si ricomincia ogni volta, ed è raro assistere allo spettacolo della svolta, ma quando succede si vive contenti per un po’. Nei rumori c’è la musica disarticolata, basta saperci un po’ fare con l’orecchio per trovare il riscontro sinfonico della bellezza, quando tiravo con l’arco sulle corde dello strumento ero attratto dal rumore del prima e del dopo della nota ben intonata, e oggi credo proprio che questa abitudine mi abbia fuorviato dal diventare un buon esecutore. Sono cose passate da tanto tempo, ma ogni tanto mi ritrovo a pensarci e credo che nel mio mestiere del domandare e rispondere mi sia rimasta quella smania del prima e del dopo, così che ascolto sempre una narrazione più lunga di ciò che è. Oggi sul quotidiano locale hanno condito uccisione di un trentenne da parte della compagna cinquantenne, con fendente fatale, una storia che si porta in giro commenti e per un po’ terrà occupati i baristi e frequentatori della chiacchiera, solo così si può tirare avanti nella provincia in cui le giornate si possono appendere come il bucato per essere rimesse un giorno dopo l’altro. Una cattiva notizia è sempre una festa per chi non la subisce, può spettegolare ed essere contento che non gli è capitata, un frullatore lo stomaco della gente, digerisce di tutto. Incombe sorniona la notte per riprendersi le strade e lasciare a pochi il privilegio di sguazzare nella foschia del pensiero attenuato, una forma indiretta di meditazione per lasciare che il mondo o la sua costruzione scivoli via per le zolle che vincono con il cemento un braccio di ferro quotidiano. Il giornale del mattino apre con una frana e la solita codazza di narrazioni abbastanza uguali a se stesse nel tempo di altre frane, una possibilità reale di una guerra nucleare in Europa con la particolarità di una via senza ritorno. Fuori è l’ora dell’inverno a nubi basse ci si rintana in un cuore caldo, fatto di anime sperse in un delirio della paura che segna il punto sulla frugalità e la spensieratezza della gioventù sia dei giovani che dei vecchi. Sono le prime ore queste, che ancora non del tutto mattino, mi fanno dire, cose un po’ a casaccio, per riprendere il comando, ricompattando i ricordi intorno all’azione di un intento verso la sopravvivenza, mi avvicino al punto in cui di solito lascio perdere il discorso e senza preavviso me ne vado ad acchiappare il cane che aspetta l’osso. Ho dei ricordi che non ho mai vissuto, appunto… se non nel ricordo, quindi che stranezza può essere la vita, se vissuta senza materialità. Di certo il dubbio viene rispetto a ciò che veramente conosciamo o crediamo di conoscere, in quanti siamo nella stessa storia biografica? Quante diramazioni si aprono nello spiazzo della memoria? Ora che sento la canzone della fine, melanconica e nello stesso tempo felice, posso osare, ed entrare nel solco di mezzo che già da bambino mi fece paura, ma ora sento vicinanza per le mutazioni spaventevoli, ora sento la diversità come identità. Cento parole al giorno sembrano un progetto ridicolo, come una fantasia, un vezzo, ma per me è restare attento a quell’esserci filosofico che è più una forma di azione meditativa che mero esercizio semantico. Intorno i rumori del quotidiano risveglio nel prepararsi ad andare nel proprio dovere, portandosi dietro la stanchezza che nel tempo sfibra il senso della libertà. I compagni di questo viaggio a poco per volta si sfilano nel ristretto spazio di un saluto, perdendo per sempre l’entusiasmo di “voler cambiare le cose”, già altri sono sull’uscio di casa pronti ad occupare gli spazi del tempo.
Un muro di genere sullo sfondo dell’apocalisse
Il sonno si para davanti, quando il fuoco brucia i contorni delle case come vecchie cartoline dal contorno seghettato, in un soffio chiude la tragedia nell’oscurità e lascia che il corpo accusi il colpo. La difesa è l’ultimo baluardo degli umani colpiti dall’incontrastabile venire incontro degli eventi, per cui sparire come fantasmi è la beffa per il predatore, che guadandosi in giro scopre la solitudine dell’ insignificanza non avendo vittime sotto tiro. La trama si ripete in un circolo tra alto e basso rispetto ad un avere ragione su un’altra tesi alquanto ragionevole, sono le vicende che snocciolate dai quotidiani si impastano in una crosta di pane dura da digerire ma servita tutti i giorni forma la consuetudine del pensare senza confini ma con frontiere d’immaginazione. Mi rigiro fra le dita le parole che non dico, per poi lanciarle vie lungo il viale coperto dalle foglie morte, risuona lo scalpitio che s’allontana lasciando che il tramonto si riveli nel colore rosato di un momento di pace. Leggendo il giornale del mattino mi accorgo che il mondo sta alzando un muro tra maschi e femmine con una interpretazione religiosa nelle giustificazioni che appare quanto mai fuori posto, il pensiero scientifico che ormai è il discorso da cui tutti dipendono per i frutti della tecnica che offre non ha nulla in sé della distinzione di genere. Per cui mi chiedo da dove viene questo terrore degli uomini per le donne, è forse un presagio per il futuro in cui la tecnica renderà sempre meno importante il ruolo maschile? Mi chiedo come sarà per i maschi quando comanderanno le donne? A novembre c’è un sole settembrino che rischiara e da lontano si vedono le cime orobiche bianche, la povertà è vicina nella sua manifestazione sempre più cruda mentre i ricchi o gli arricchiti diventano sempre più arroganti nel manifestare la volontà di sopraffazione o forse è il fatto che tutto è più scoperto, la discrezione ha lasciato il passo ad una continua esternalizzazione della sofferenza su cui nessuno bada se non coinvolto direttamente. Se da ragazzo giocavo a guerra tra bande con finzione sia nelle armi che nelle intenzioni, ora la guerra è vera anche se chi la fa ha la testa di un bambino. Non si gioca più per imparare ma il gioco è già parte della sopravvivenza per cui gli adulti di domani avranno fisionomie diverse dal presente, forse il momento storico del passato che più si avvicina è l’uscita dalla prima guerra mondiale dove i giovani sono stati travolti ed il dopo ci è noto. Ci saranno o ci sono già nuovi mutanti, alla fine il corpo troverà una nuova modalità di aggregazione con alleanze molecolari a noi ancora ignote, più il cambiamento diverrà radicale più il vecchio essere umano sarà spinto nella marginalità dell’estinzione. Un riverbero stilizzato sulla plastica nel perenne galleggiamento tra le onde del mare, forse nel cielo più soli e lune in un quadro di raffinata visione noir tramandata oralmente in corpi di unica parola. Rileggo questo fondo di bottiglia abbandonato e risuona il messaggio ormai antico di chi nel mediterraneo si è perso, ora che potrebbe essere attraversato a piedi non essendoci più l’acqua. Già da tempo in questo nuovo scenario della mutazione non è l’uomo l’attore principale, ma ospite incorporeo nella landa sterminata dove le grandi presenze dialogano tra di loro, oltre il pianeta verso le masse di aggregazione che si spandono in quello che l’uomo chiamava universo. Mi sono schiarito la gola cercando di parlare ma non è uscito che vento e ci sono rimasto male, le solite parole che se dette ti tornato come un cappio, il silenzio segue la battigia fino al calare della notte e poi ti lascia libero di volare via con le falene verso le stelle.
Intorno al senso delle cose
Intorno al senso delle cose che germogliano, fioriscono, decadano nella dimenticanza, come anche un incontro, un bacio, un addio. Intorno allo stare qua, in un luogo non ben definito perché tutto si muove in una continua evoluzione senza una via di risoluzione. Ascolto o leggo gli accadimenti quotidiani e il profilo di una cultura del mondo si delinea, e nello stesso tempo si collega al sentimento dando al divenire il significato che in questo momento diventa il mio significare. Intorno a tutto questo rimango stupito di come si possa continuamente reinventare la storia in mille e mille modi senza mai che ci sia l’unica versione. Anche oggi ci si sveglia di buon mattino con i venti di guerra che spirano sempre più vicini, ormai la strada dello spavento generalizzato sembra la più efficace a contenere l’irrequietezza dei popoli. L’industria del carbone intende dare una ultima azzannata alla terra prima di lasciare il campo alle nuove tecnologie che avanzano in un incerto tentativo di salvataggio, il quale si mostra arduo perché con sé si porta via questo tipo di umanità che ancora non molla la presa sulle proprie divinità. Cielo incerto oggi, da vicino nuvole grigie, e all’orizzonte l’azzurro di una schiarita, è come un afflato di una coda poetica che giunge quasi silenziata alla coscienza, un sussurro nel campo oscuro, una gioia inattesa mentre divampa la solita coda per la sopravvivenza. La poesia è poco rappresentata nei summit che decidono le sorti del mondo, sarebbe una buona abitudine invitare i poeti a raccontare le proprie parole, prima che la politica del potere comincia la propria di danza. La parola incarnata nella profondità custodisce i semi della verità ed è solo la poesia ha saperli cogliere, a confronto il linguaggio scientifico è di una sciattezza disarmante, per cui anche dove oggi tuonano i cannoni la parola profonda può essere il perno per riappacificare le polarizzazioni umorali della potenza del volere. I bagliori che compaiono davanti al campo visivo ed i suoni invisibili che ronzano nella testa rispecchiano un avanzare della caducità, che verso l’inverno si intona con la colorazione della natura e del clima melanconico. Nell’ascoltare le notizie in televisione si può fare l’esperienza di una miscellanea tra tragedia e banalità in un corto circuìto di pura assenza dalla realtà, per riprendere il dopo come se nulla fosse successo, una modalità che sempre più ci estranea dal sentire le sofferenze di chi come noi vive ogni giorno la fatica di starci nella quotidianità. Guardare fissi davanti a sé è fuorviante della visione dell’ intorno e rispecchia le cecità di cui poco alla volta sopprime il senso critico delle vicende, come muli ci spingiamo nel sostenere idee che per la loro vacuità intrinseca sfioriscono ma in noi rimangono attaccate come vesti marcite e con il tempo avariamo con esse. Lo spirito inteso come libertà di espansione del comprendere in qualche modo ha bisogno di essere salvaguardato, perché è la bussola che al momento dell’oscurità conduce fuori dalla tempesta. Sono simulazioni susseguenti che intrecciano le sensazioni e si assomigliano nella sostanza dell’azione, ed è la dimenticanza che introduce il tema della novità dando l’impulso alla costruzione delle storie. Camminando mi sono perso nelle vie e piazze cittadine, non riconosco la consuetudine e giro attorno come un sognante guarda il mutevole contorno del sogno, seguo il richiamo della civetta che da sempre riporta verso casa i viandanti dall’uscita dell’osteria al tempo di oggi. Vorrei risentire il sapore dello scantinato ricolmo degli attrezzi del pittore, e naufragare nell’insolita malinconia che il passato trascina dentro ad i gusti di una tela ancora incompiuta ma già antica.