Ci sono sentieri (maggio 3)

Ci sono sentieri in cui è bello inoltrarsi senza pensieri o intendimento, ma semplicemente con un passo via l’altro. Nella viscosità dell’aria si attraversa la concretezza del mondo che scorre ad i lati cogliendo vicendevolmente l’indissolubile relazione tra se e l’altro. Così mi ricordo i primi giorni in montagna quando ho lasciato una pianura che in qualche modo mi ha accompagnato nei passi per i primi trent’anni. È una emozione quando alzando lo sguardo puoi lasciare correre la vista come un cane fedele che poi ritorna gioioso con trofei e meraviglie dall’orizzonte delle vette.

Accarezzare quel vento che scende insieme al Brembo mentre intorno il buio comincia a delineare ombre lunghe è ciò che mi resta tra le mani in questa giornata storta. Ora che vedo con occhi disincanti quel continuo agitarsi della folla scontenta me ne rimango in disparte insieme ad i cani che dei litorali di qualunque natura hanno creato una specialità. Ore scandite da rincorse per ogni faccenda per girare intorno ad un contesto che non sussisterebbe senza la problematizzazione di ogni situazione. Fermo quasi immobile cerco di fermare il girare delle cose che spavalde invadono spazi e pensieri mettendo saldi ceppi alla libertà.

Tornano le ore a rintoccare alla destra del percorso delineato dalla nascita alla fine. Nei paraggi volti e sguardi incitano l’intenzione di passare oltre questo recinto limitato. Adolescente me ne stavo chino sull’ombra delle scarpe proiettata sul selciato, non c’era niente nell’orizzonte che mi attirava. Solo il suono dentro alla testa che poi si spandeva nella circolazione dei fluidi. Nei boschi oggi come allora si può stare senza il fiato sul collo della responsabilità e dall’ intreccio dei doveri in risposta alla sopravvivenza. Un po’ più a valle il fiume che si porta con se il senso della spossatezza di questo momento.

L’esondare in tutti i sensi rompe gli argini ad una sordità protratta con cupidigia, non si vuole cogliere le altre possibilità di stare in un mondo limitato dalla sua propria natura. Un po’ a turno si è vittime e spettatori del rompersi della terra che con essa si inghiotte le case ed i sogni o l’egoismo di molti. Al di sopra continuano a cantare gli uccelli planando su ciò che resta della disgrazia umana ma anche dell’orgoglio di chi non cede mai alle avversità e rimane dritto alle inutili parole degli avvoltoi che sanno come speculare sulla disgrazia.

Un richiamo notturno al di là della staccionata lasciata incustodita da molti anni da uomini che ora non ci sono più. L’abbandono richiama a se i trapassati in questa desertificazione ed anima nell’oscurità la polvere smossa dal vento. I non luoghi inesistenti sono popolati da pensieri concreti che hanno fame di carne e bevono sangue. Per caso passando si viene risucchiati dall’attrazione per l’antico e rivestiti dagli antenati dal ricordo che: “nulla è divisione per cui ogni aspetto dell’apparire è legato a ciò che è velato in eterna dissolvenza”. Ancora titubante cerco i passi segnati sulla sabbia e ritrovo me stesso che sta tornando su i suoi passi.

Le storie albergano sornione nell’animo mentre sdraiati al sole si lascia passare il tempo inevaso dalla futilità. Una mano si alza oltre l’ombra e giocando con il sole si sporge sul limite del crepaccio pensato come rupe nel solco della fantasia. Sono piccioni mischiati a gabbiani le forme che schizzano sopra all’imbrunire nel momento in cui si sta per chiudere con uno sbadiglio. Ora mi riprendo il vecchio sorriso dalla soffitta in cui i ricordi sono buttati alla rinfusa riempendo gli angoli fino al tetto del cielo mentre sotto il bollitore fischia la marcia del presente.

Sottosopra (maggio 2)

L’insolita questione discussa stando tra la porta d’entrata ed il corridoio con un accanimento verbale da risuonare ben oltre il raggio d’interesse. Così sembra ormai che le cose debbano essere dette, cioè al di fuori della ragionevolezza di chi è interessato, ma sputate oltre sulle facce inconsapevoli dei passanti in modo intimidatorio. Tutti devono sapere che non è più possibile pensare o dire ciò che si vuole, ma da dentro nasce la censura che piega la schiena all’orgoglio del libero. È un velo ciò che viene posto sulla vivacità dei colori della musica e della poesia rendendo opaco il paesaggio teatrale.

Catene calate insieme alla pioggia di primavera nell’attimo in cui la metafisica ha abbandonato il mortale insieme alle figure mitologiche dei sogni. Ora restano balocchi costruiti con farmaci e macchine parlanti nella sfera dell’ elettromagnetismo. Ci si sballa con serie televisive allungate alla bisogna per occupare divani e tempo senza casini in giro per strada. Aguzzini sono i maleducati senza regole che sporcano e lasciano i propri bisogni in bella mostra, a dimostrazione che la strada è un luogo di conquista e battaglia. Sgomitando si arriva ad avere ciò che sarebbe un diritto in una lunga sequela d’abitudini in cui il rovescio é diventato il dritto.

Una sequela di insulti sono le intenzioni della politica nel rendere la cosa pubblica una mera merce da supermercato. Le proteste che vanno in scena emergono dalla demenziale sbornia che negli ultimi trent’anni ha affossato il pensiero. Si cambia registro verso una serie di incognite in cui le polarizzazioni sono il modello del dialogo. Accampati nei centri urbani alcuni pensatori aprono la strada ad un nuovo maestrale al ritmo della musica acustica. Si schifa l’elettronica per tornare al rustico gracchiare del canto nudo e sfibrato ed un po’ stonato dal catarro. In cima alla montagna regna il silenzio perché la valanga ha già lasciato il vuoto verso la valle.

I malinconici non violenti s’interrogano sulla possibilità della violenza in una realtà macinata da una guerra aperta su ogni fronte. Come stare in punta di diritto nel discorso quando i cancelli del fascismo si sono riaperti al senso comune? Amanti della forca altrui zampettano baldanzosi all’aperto in cerca del posto al sole di vecchia memoria, ora che all’orizzonte una moltitudine di uomini di colore scuro stanno per spezzare ogni catena nell’orizzonte nord, sud. Lamenti di donna piangono i figli e le loro lacrime scrosciano come pioggia fine sull’Occidente alla fine.

Sottosopra il velo copre metà del mondo che incuneato nell’ irreversibilità del divenire non si accorge di ciò che non appare. I giorni tristi si affastellano a quelli lieti in quel margine nascosto che è il privato. Riprendo dal punto in cui qualcuno dice ad un’altro: “dove sono tutti quelli che: vissuti, ed ora non più presenti, echeggiano nella memoria dei presenti?” Non ci sono risposte che tornano indietro lasciando la stanza in sospeso nel sottovuoto dell’assenza. Mi sono allontanato solo per un momento e tutto è cambiato lasciandomi nel disordine da cui mai più potrò ritornare senza una rottura od uno spasmo.

Piedi gonfi per la forza di gravità che in modo estenuante non molla mai la presa. Un bivacco in cima alle scale lascia resti in giro con eco di risate e canti. Sembra tutto finito mentre con il fiatone arrivo a destinazione e per un attimo colgo il benessere della spensieratezza. Sono alcuni giorni che il pensiero della violenza mi avvolge e mi stanca al punto da non vedere una via d’uscita. Possibile che la trasformazione delle cose sia così cruenta da non lasciare un margine all’armonia della consonanza?

La forza del rimpianto (maggio 1)

A forza si torna a governare quelle riottose pulci sfuggite al richiamo dell’uomo nero. Egli se ne va in giro con il pastrano tirato oltre la collottola in modo da sembrare un rettangolo senza forma umana. Alcuni bambini si scansano non capendo e notano stupiti un vuoto al centro della figura. In essa un vortice risucchia le buone intenzioni e se ne nutre come carne fresca in questo momento in cui il giudizio dorme. Tutto intorno si assiste alla metamorfosi del pianto in rabbia mentre da dentro il gioco del nascondiglio si resetta con le frasi obsolete che pendono dal cappio del linciaggio.

I molti versi della stessa strofa si snodano da dentro la custodia del pensiero silente mentre camminando mi guardo attorno con fare indifferente. Sembra a volte di cogliere la sorpresa che qualcuno possa sentire il rumore interiore ma alla fine è solo la paranoia di apparire trasparente. La malattia mentale si struttura da un costrutto esterno che raschiando l’identità con un giudizio stridente demolisce l’esame di realtà. È in questo modo che il mulino diventa destriero e il capanno un castello d’assediare in nome dell’amata. Riposo nel parco dove l’attutito rimestare del mondo resta nel sottofondo e “respiro contando” con gli alberi che al momento tacciono.

Lavorare è sempre più dura in questa situazione in cui le menti di tutti vacillano, l’incertezza in tutte le dimensioni ha lasciato nella paura le persone, che reagiscono nei modi più bizzarri. Abitare il presente è diventato un lusso per pochi i quali riescono a scivolare sulla corrente della deformazione corrosiva identitaria. Non farsi catturare dal senso di sconforto in cui le narrazioni che si affollano alla porta premono per entrare. Ma stare un poco in disparte nell’angolo antico dove i vecchi pensatori dell’ontologia pensano: “essendoci nell’essere guardano l’oltre stando nel senso del nulla”.

La poesia si spezza sotto le mani callose di chi fu contadino ma che ora è diventato soldato. Arrancando nella terra le parole escono in parte dal fango per coprire il bordo degli scarponi. Da lontano il verso quasi composto arriva come una nenia melodica a bocca chiusa e si perde quando il tuono del cannone spazza l’aria di polvere malsana. I pezzi di un uomo si compongono nella sagoma nota, ma non è detto che stiano insieme, anzi sembra una marionetta tenuta congiunta da legacci l’ombra che si inoltra nella notte per non più uscirne.

Ritorno al punto con insolita ansia in questo pomeriggio che nel silenzio tra i muri rosati in cui si snoda il traffico dei natanti. Scrivere per scrivere come urgenza dettata dall’ impulso sordo al richiamo ragionevole. Quanti esseri in questo momento si spostano sullo sfondo di un qualcosa innominabile perché impercettibile. Una vacua storia di lasciate e riprese tra amanti inconsapevoli del potere del sentimento che lega più del maglio. Pelle nuda pronta per il sesso mentre la mente cheta rimane in disparte pronta a cogliere il momento di riprendersi la scena. Un balzo oltre la possibilità di sentire finalmente la libertà del vento dentro di se.

Si spengono le luci in sala… e, la musica prende il posto del mondo delle cose. Sciogliendo i legami di senso che nella temporalità sono prigioni. Accarezzo nel posto assegnatoci la mano dell’amata che mi pare eternamente fresca per la mia malinconia. I suoni ci accarezzano la pelle… e, le visioni nelle crepe del reale mostrano quanto ancora è insondata la tela bianca distesa sul cavalletto pronta per la tavolozza dei colori. Continua la musica a diffondersi avvolgente lasciando che l’ispirazione creativa di uno si trasforma nella nostra… e, per una sera il camminare tra le stelle del cielo è realtà.

Ciabattando in giro per casa (aprile 5)

Come sempre il ciabattare in giro per casa risuona in presenza dei pensieri che oltre al cranio si riverberano sugli oggetti. Gli oggetti animandosi donano carattere alle pareti che da tempo non vengono tinteggiate. Pareti che liberandosi dal giogo della gravità volano con gli uccelli su i rami vicino casa. Una casa che non lo è più, si trasforma in vento e pioggia che gioca con il sole di primavera a tratti caldo, e poi freddo con civetteria. Ciabattando per casa tutto si muove nell’aria fino e oltre ogni limite imposto.

Pulizie fatte ponendo attenzione al respiro ed ad i muscoli che tendono a fare forza contraria nel lasciare andare i movimenti. Sono da solo mentre intorno a me sembra esplodere una marea di intenzioni e frustrazioni per le occasioni mancate. Mi piace guardare la polvere che viene risucchiata per lasciare uno spazio vuoto dove per un attimo posso lasciare depositare la mia fantasia. Gesti casalinghi lasciati scorrere per lo più in sospensione dal giudizio, dietro le porte serrate dalla diffidenza incompiuta che gravita intorno alla forma umana scolpendola fino alla nullità e alla resa incondizionata al tempo.

I gesti per una certa cultura orientale sono importanti ed i dettagli sono enfatizzati in modo da distogliere l’attenzione sulla consuetudine. Nella quotidianità riprendere il filo di quel modo di sentire il mondo è una pratica di attenzione verso le cose e le persone più vicine: “proprio quelle che diamo per scontate”. Quindi al risveglio lasciare che l’attenzione venga attratta senza fretta dal risveglio di chi sta intorno e sentire compassione nell’immergersi insieme in un nuovo giorno. Per dieci volte inspirando penso al respiro che calma e espirando penso al respiro che guarisce. Fino a trovare il silenzio dentro al frastuono dei tanti me parlanti.

Una voce infantile parla dentro di me quando le onde dello scherno colpiscono nel segno il mondo antico che non posso più cambiare. Sono parecchie le scene che giacciono dimenticate in cui l’impotenza e la vergogna hanno prevalso lasciando un bambino nella disperazione. Oggi la corazza adulta attenua entrate ed uscite con una perdita nel valore del sentire la sensazione e l’amore. A più voci il canto si riversa nella casa appianando le istanze della vendetta sempre in agguato nella veste infantile, egli è un bambino diventato capriccioso ed incontenibile man mano che l’involucro invecchia. Anziani molesti possono ridefinire le leggi del tempo se il megafono della rivalsa scopre il coperchio dei segreti.

Il raduno sotto casa riempie per un attimo il cielo incrostato dalla fuliggine del risentimento per poi essere lavata via da una pioggia fine nell’ inconsistenza dell’acqua. Parole gridate per centrare il bersaglio e superare la molle indifferenza che accompagna chiunque addestrato ad obbedire. Di certo non mi dilungo in forbite spiegazioni per la rinuncia ad essere parte della contesa che continua per sempre sul selciato del passato. Sono radici quelle che spuntano dal terreno e spostano l’asfalto nel tentativo di respirare e di riappropriarsi del vento.

Uscendo di corsa imprecando; Gorki non si avvide della pioggia che sferzante tagliò in due l’asse stradale impedendo la visuale dalla cintola in giù, per cui riuscì ad infilare tutte le pozzanghere da lì all’inizio dei portici. Fradicio ripensò al discorso sul “divenire” che l’aveva fatto incazzare da parte dei suoi compagni di bevute. Non ci poteva stare per lui che il niente si mangiasse tutte le cose in una insignificanza di casualità dettate dal tempo. Si disse: “qualcosa deve pure stare fermo in questo casino e governare l’eternità” non se la sentiva di sparire così come polvere nel mare. Ed in quel frangente salì dalle viscere una angoscia che non lo abbandonò più.

Tornelli grigi (aprile 4)

Ancora nulla è successo da queste parti, in lontananza si sente solo un lieve soffio della protesta che monta nei centri storici. Nelle consuetudini ci si trova a confermare che il cambiamento è lontano, ma come ogni valanga quando arriva non chiede permesso ma travolge con impeto e cambia lo scenario abituale delle cose. Stando alla finestra e guardando un po’ più lontano le previsioni vengono meglio, sempre se si è disposti a prefigurarsi lo scenario peggiore, rispetto alle abitudini. Per cui fisso un punto oltre l’ultima casa e immagino foreste che avanzano come i dinosauri che tornano a casa.

La ricetta giusta per una serata storta non c’è, neppure un sorriso giusto per una bocca serrata dalla paralisi del dilemma non c’è. La cosa giusta da fare quando un intervento educativo deve cambiare una situazione di fatto, da qualsiasi lato venga visto risulta una violazione, perché impone a chi vi è assoggettato un cambio di stato non voluto. Per cui si invoca il buon senso o il migliore bene da un punto di partenza che è sempre un preconcetto. Camminare attraverso le teorie dell’educazione è come stare sopra le uova in una consapevole situazione o “presenza mentale” in cui si possano rompere.

Tornelli grigi bloccano la gente che a onde si riversano come spinti da una volontà invisibile oltre l’ingresso. Uno sciame che ronza e si disperde nelle varie mete quotidiane. Basta una singolarità non conforme in senso opposto per spargere caos e disappunto in una giornata qualunque delle tante sottratta all’essenzialità del sentire il reale come vaghezza della forma. Stare fermi un attimo in più della marea per cogliere il silenzio del prima e del dopo rispetto alla gravitazione. Sono immagini le mie che si affastellano nel quadro della stanchezza del pomeriggio tardi mentre il fuoco brucia la bontà.

Alcune soluzioni sono già pronte all’uso per successione ereditaria dall’esempio dei padri e madri. Una intersezione di volontà che si spingono sul controllo delle cose per sedare la confusione ed imporre un dominio. Me ne stò a letto catturando suoni e visioni mentre dentro si spengono le luci del passato che non sembra più mio, infatti i suppellettili appaiono estranei come posizionati da una mano altra senza storia. In qualche modo vorrei restare ancora un po’ in questo presente ma dal fondo dell’oscurità avanza un gelo che avvolge e forma le stalattiti che pendono dal soffitto, è un sussurro il vuoto che si apre pronto ad imporsi nel fondo dell’occhio.

Un piede avanti l’altro mentre ci si appoggia con una estrema incertezza che un giorno si possa cadere. Guardo il sole che oggi è apparso dopo lo scroscio notturno, dalle finestre abbaglia come ad indicare una urgenza che velocizza le routine quotidiane. Attendo alle molte parole che dovrò affrontare come ad un nemico della mia salute, una ingenua rimostranza è il silenzio che chiuso in gola si oppone alle risposte dal sapore della consuetudine. Bagliori lontani riecheggiano nel fiume della memoria come davanti ad una festa non ancora festeggiata.

All’improvviso mi ricordo dei fatti accaduti mentre tra il rischiarare e l’imbrunire del cielo le anime sospese evaporano, è accaduto che tornado da scuola alcuni bambini si sono persi nel momento di diventare grandi. Questa storia della bassa pianura rievoca un tempo in cui le distese dei campi erano ancora la cosa più importante e ci si rincorreva tra grano e frumento. Aspetto un cenno in cui i papaveri schiudendosi colorano la sceneggiatura tra le risa e giochi dal sapore di una terra umida che da anni assiste le mutazioni delle stagioni, le sagome in dissolvenza sbiadiscono come il ricordo appeso tra le labbra invecchiate.

Predicato verbale (aprile 3)

A certe condizioni si può restare in bilico tra idee contrastanti in un dialogo interno fatto di sferzanti rimbalzi fino ad implodere in una piazza gremita da rivendicazioni urlate. Questa situazione può capitare al rimuginante professionale che si porta dietro un coro di voci in ogni aspetto della sua realtà anche quando comunica con l’esterno. Se vi trovate davanti ad un rimuginante professionale potete stare certi di non essere ascoltati in quanto Egli è troppo impegnato ad anticipare il vostro discorso e a darsi le risposte per cui l’ascolto nel suo cervello è precluso.

Di certo quando parlo utilizzo il linguaggio è tra il pensare e il dire stiamo già a due, quindi da sempre non siamo una unità ma una molteplicità che si gioca la narrazione del mondo, ogni evento che arriva ad espressione è il frutto di una dinamica dialogica critica tra pensiero e linguaggio. Mi porto dentro più trame che criticandosi riformulano la sintesi che poi si esprime come una eruzione e più è complica la questione più i soggetti si uniscono al coro fino alla moltitudine a cui ogni povero Cristo ha a che fare quando per decidere deve pensare con il linguaggio.

Il raccontare è il consolidamento dell’appartenenza ad un aggregato di idee che si consolida attorno ad altri attori con similitudini comportamentali. Le storie legano i sentimenti ad un luogo che da quel momento diventa casa. C’è tristezza nel cuore del mio vicino che ogni giorno combatte per non bere, e trasforma la propria casa nel bello che dentro di sé non trova. Con muso lungo e infagottato alla bell’e meglio come un orco cerca di mantenere la distanza per sfuggire al riconoscimento altrui. È una storia nei fatti che si fa epica nella parola che attraversando il quartiere diventa romanzo.

Torno sempre a lucidare quel triangolo di mondo che sta tra il pollice e l’indice, come un tic solitario mentre gli altri se ne vanno lungo il corso radendo il muro che divide il dentro dal fuori. Ho ascoltato i salmi mentre passavo per caso dal monastero lasciato incautamente incustodito a dei ladroni che si portavano via il succo della fede. Per un attimo ho bestemmiato in buona fede senza nominare Dio invano, ma poi il tutto mi è scivolato di mano mandando in malora il mio salmo preferito senza più voltarmi a guardare la faccia di un credente.

Tornando alle parole che saltano in bocca come pop-corn salati dal mare disteso nel suo letto, mi ritrovo a non governare più le pensate di inizio stagione quando l’aria frizzante dona qualche anno d’età in meno. Esauriti come le gomme da masticare i pensieri che mi vengono incontro appaino insignificanti e appiccicosi senza il verbo che struttura l’azione, solo soggetti che rotolano come pietre lungo la pendenza della riva per inerzia prima di sparire tra ì flutti grigi dell’acqua. Forse sono solo parole ma oggi che i corpi sono diventati un sillabario una cancellatura può mutare in una ferita.

Anche oggi ho tirato le somme dentro la barca dal fondo bucato che immancabilmente non affonda perché agganciata al vento. In solitaria navigo al largo da pensieri complessi i quali a forma di ragnatela cercano una sosta per predare i poveri sprovveduti ignari dei loro predicati verbali. È una scommessa la scena costruita per una storia mitica che racconta di un amore eterno, mentre i mortali passano per la via dell’oblio trasformandosi ogni volta in pietre antiche ad i piedi dei monoliti. Sono i santi quelli che lasciano degli scritti ad indicare il punto che non si vede mai perché appunto indicato dall’indicare.

Si può… (aprile 2)

Si può udire da dentro il sibilo che ci riporta al risveglio nella mattinata di oggi che come ieri si presenta alla coscienza. Con una certa testardaggine insito nel voler strutture un progetto o storia, ma da subito nel pensarlo mi ritrovo a perderne la consistenza, i pensieri si sciolgono e colano dalle estremità del mio spazio vitale e si perdono. In qualche modo cerco di fermare l’emorragia ma è buio oltre quella soglia. Fermo immagine su ambienti abbandonati, meglio se vecchi opifici in radure incolte, ingrandimento e zumate verso particolari particolarmente incrostati da ruggine e resti dalla lavorazione…poi personaggi sbiaditi in bianco e nero che tremolanti appaiono e svaniscono. Ancora non del tutto sveglio si materializza nella memoria la carrellata di volti visti il giorno prima, esse sono sfumature emozionali che riproducono le sembianze in rughe significative dal dolore. La fenomenologia insegna a guardare ciò che sta alla vista senza la carica significativa che l’intenzionalità insita del nostro osservare già investe l’oggetto prima dello sguardo. In questo modo i volti in rassegna appaiono nudi dalla mia intenzione e sono ciò che sono, cioè bizzarre conformazioni dell’espressione umana che si riflettono in me per il loro stesso giudizio, ed in questo piangono la propria pena. Sono giorni complicati dentro alla storicità del racconto dei molti esuli di un mondo in sbandamento, la paura che si trasforma in rabbia è la costante linea scavata dai profili della gente. In disparte si accumulano i rinunciatari sempre più evidenti nell’ inerzia di un pensiero che non sa più affrontare la povertà e la miseria. Semplicemente si ignora gli avanzi e lo scarto che infettando le sorgenti prima o poi farà crollare il feudo civile…mi scosto un poco per vedere meglio…oltre la nebbia che incrocia il sottosuolo, e cioè che vedo è terrorizzante. Rinnovamento è un ordine del risveglio pensato da milioni di persone che a sezioni nel mondo si alzano e guardano la realtà in modo diverso. Dove prima c’era il silenzio ora le voci si fanno concitate per l’urgenza di esprimersi e finalmente:“lapilli e lava” l’eruzione travolge vecchie incrostazioni. Aggirandomi nella calma piatta dei sentimentalisti per tessere un filo di concatenazioni alle quali va aggiunto un cappello per chiudere la storia. Sono in affanno nel corpo che oggi disteso senza volontà nel torpore del tempo che non vorrei che passasse. Cerco un riconoscimento che mi colloca sulla scena di questo crimine che è il perdersi nel divenire, che per i buddhisti è continua trasformazione degli aggregati. Per la logica è l’eterno che si mostra nel proprio stare per ciò che è. Per i nichilisti il divenire è la prova inconfutabile che si va nel nulla, l’annichilamento dell’essere, e con esso Dio. Ancora sovrasta su i cieli da Babilonia in poi la volontà che le cose siano altro da sé e prevale l’umanità malvagia che non si arrende alla bontà. Guardando le file dei libri riposti senza un ordine particolare sulla libreria, la mia ricerca ha sbalzi miopi individuaando testi possibili per essere mutati, attraverso un lavoro di spoliazione delle parole dal loro senso, per essere ricollocate sopra ad una diversa trama che man mano porte con sé il paesaggio del mondo sotto la lente d’ingrandimento. Il rimescolare è l’arte del funambolo che appeso ad una sottile trave, muove i birilli con estrema cura verso nuovi orizzonti della Gravità sfidando la sorte nell’acrobatismo della sospensione. Archiviata la Pasqua con il casino che si è portata dietro, nelle strade riprende il moto perpetuo della folla che si orienta rispetto al proprio “da fare” e nell’ansia si corre verso la meta che rimanda ad altri non luoghi del vivere.

Ricomporre i cocci (aprile 1)

Riprendo una lenta meditazione interrotta dal sopraggiungere delle tensioni che sfilano sulla linea dei nervi e si fanno coscienza, diventando poi pensieri volatili che una volta liberi si chiamano “cultura.” Il divenire non lascia tregua mano a mano che si invecchia, è una speciosa creatura che si insinua per fare si che crollasse ogni certezza o momento di stasi. Dal nulla al qualcosa come un battito di ciglia sulla fronte della terra che appare divisa dalle altre costellazioni del cielo. Più che meditativo mi ritrovo incupito dentro ad una gabbia che risale alla storia degli antenati, quando hanno deciso di essere qualcosa piuttosto che niente. Ritornare indietro per Eoni scordando luoghi e definizioni per ritrovarsi in ogni spazio, un cappuccino al tavolino sull’incrociarsi di due traiettorie mentre una lieve pioggia smussa gli angoli della tristezza. Mi sento un po’ così come un viandante che non va da nessuna parte, in una incerta decisione che mai si decide a maturare, e, quindi, si rimane seduti sorseggiando l’eterno cappuccino mentre da fuori il tempo scorre come ha sempre fatto. Partecipo ad una riunione e tutta quella agitazione mi irrita lo stomaco. A stento arrivo alla fine, esausto e vuoto come dopo una condanna capitale in cui tutto si annebbia nella gravità dell’ irrefutabile. C’è in queste situazioni una istanza di redenzione, dove i convenuti si ritrovano ad interpretare un rito che assolva la coscienza dal peccato o dal senso di colpa nel sentirsi inadeguati verso un Dio che ormai è velato dalla modernità. Riunioni come messe celebrative in cui le persone trovano riscontro di esserci ancora nella considerazione altrui, oppure riunioni in cui guerreggiare per imporsi e per attenuare una identità debole. Questa danza quotidiana del lavoro si ripete nella mia mente come un disco ad una sola canzone, irriverente verso i nervi sfilacciati dall’uso e… invecchiati dal tempo. Cado in un dirupo mentre da fuori tutto rimane immobile, scivolo dentro un baratro che graffiando toglie la “pelle di dosso”, non vorrei essere qui ma niente riesce a tramutare il sogno in acqua, per cui continuo la corsa o meglio la scivolata. La realtà appare sbiadita passandoci accanto in caduta libera, con le cose inanimate che si animano e sorridono come fiori maturi che da sempre ci guardano dall’altra prospettiva che noi chiamiamo inconscio. Cerco appigli per frenare l’accelerazione ma le mani sono trasformate a vele e catturano il vento in modo da spiccare il salto, quindi mi arrendo e lascio fare alla natura dell’essere quel che vuole in fondo è solo un altro giorno. Per me che già faccio altro scrivere tutti i giorni è una necessità, senza una finalità precisa perché scrivere non è solo un mestiere, ma è disciplina tra logica e arte. La pratica è mettere insieme il caos creativo con la austera metodica di dovere infilare una parola con un’altra di senso compiuto. Nello stesso tempo ascoltare il proprio respiro e fare in modo che l’aria che entra calmi lo spirito e l’aria che esce guarisca il corpo. Nello scrivere a volte subisco un conflitto interno che mi disturba, infatti non so scrivere per raccontare qualcosa in particolare, quando ci provo perché mi viene il dubbio di doverlo fare il risultato è deludente. Mi sono accorto che amo le parole nella loro singolarità e spesso le accosto in una dissonanza come nella musica dodecafonica in cui a risultare emergente non è la melodia ma lo spazio armonico interno o sotto la melodia. In sostanza io scrivo per ricomporre i cocci delle cose rotte in me o in altri non importa, ciò che conta è respirare dentro le cose aggiustate fin che tengono.

Bambini (marzo 5)

I bambini si toccano per riconoscersi e girato l’angolo si dimenticano il passato non avendolo ancora inventato. Anche i nomi delle cose per loro sono variabili ed anche le cose stesse a volte sono altro da sé, o per dirla tutta: sono gli enti degli adulti che non corrispondono alle esigenze dei bambini. Incamminati per mano verso il cielo, quasi arancione, con un’aria ancora fredda… che spinge contro, complici nella passeggiate tra timide primizie di primavera. Siamo soli, come piccoli naufraghi in una deriva avara di versi poetici, abbandonati e sparsi lungo le rovine dei barconi, io ti guardo mentre la luce si diverte a rallegrare le gote in un rossore che mi gonfia il cuore. Tornando ad i bimbi che fummo in un presente antico fatto di pane e mortadella o pane burro e zucchero, incamminati tra le balle di fieno sparse a rettangolo nella vastità del campo come un’opera artistica. Incespicando con i sandali negli spuntoni duri del trinciato secco, ci diamo la mano per correre sfidando dolore ed equilibrio. La natura d’innanzi è tutto ciò che serve al nostro girovagare, uno spettacolo senza fine per le continue sorprese e l’assenza dell’ansia degli adulti che se incontrati riverberano una presenza di sogni estinti. Sulle rive dei ruscelli si apre uno spettacolo appena sotto la fronda verde, dove movimenti furtivi creano al nostro occhio un fermento fantasioso. Da piccoli, il rapporto con il cielo e ciò che lo abita è vivo attraverso un linguaggio del sentire che poi è destinato a sopperire, le cose della terra e le cose dell’aria sono animate nella rappresentazione dei tanti possibili mondi che da bambini possiamo creare. Questa linea apparente del tempo mi riporta ad un oggi che mi sembra stanchezza dovuta ad un peso del pensiero, e quindi l’assopimento riapre il gioco ed il richiamo dei vecchi amici. Oggi leggendo i giornali mi sembra che prevalga l’idea che la guerra in corso non sia tra popoli, ma tra generi ed in primo luogo tra uomini e donne. I vari fascismi prendono il vento in poppa sulla incapacità della coscienza critica di riuscire a governare la complessità delle divergenze che sono sempre state il fulcro delle nuove visioni del vivere. In questa realtà i bambini ritornano a contare niente, ritornano alla invisibilità perché usati dai regimi per finalità di propaganda. Il mondo possibile dell’infanzia popolato da eroi, fate, e abitatori del cielo e della terra bizzarri tornano nel sottosuolo del pensiero, scacciati dalla logica adulta che sforna servitori e odia le diversità. La magia è bandita dalla sponda destra, dal viottolo in evidenza, nella città degli scuri personaggi che si adoperano a costruttori di cubi, con cemento e ferro, impilati in più forme come cattedrali gotiche senza fronzoli, formate da parole secche e taglienti ad inquadrare ogni fatto in una specifica posizione: ‘senza fallo alcuno.’ Questa è un po’ la prigionia che ci aspetta lungo la via del prosciugamento delle risorse del pianeta che scaldandosi si avvia a generare maggiore energia per altre fonti o genere di aggregazione. Placido assenso nel torpore per il ripiegamento sul proprio asse di rotazione verso le viscere, un respirare dentro che si incrocia con la scossa della vulnerabilità. Mentre questo accade fuori piove ed è una pioggia insensata quasi priva d’acqua alle cui basi riporta il peso di una terra arida, riottosa al dominio della lama che vuole penetrare in un atto volgare senza curarsi della cultura delle zolle preesistente all’aratro. Come sempre i bambini si prendono per mano camminando nel gioco dell’esplorazione in cui davanti a loro si stende lo spazio della prossimità con le cose che ‘forse’ non esistono.

Dispute guerreggiate. (Marzo 4)

Sono tornato per la solita strada che dal fondo rischiara di blu il tono del passo, e che negli anni si è fatto un po’ incerto…ma saggio. Cammino solitario anche se qualcuno mi parla, in quanto la dimensione dell’aria a volte crea interferenza riducendo la solidità dei corpi in vento. Allora con pazienza la forma dei gesti prende il sopravvento e indica la direzione nella comprensione come ad una rappresentazione teatrale muta. Alcune vie, parcheggi, vetrine, aiuole, alberi, scorci dal parabrezza; sono diventate mie nell’ abitudine che segna con lacrime la lenta incomprensione del tempo. L’imbarazzo verso quel tale o quell’altro in un rossore alle gote sconveniente, mi sorprende quando capita e cerco il nascondimeto. E, se, questo esser timido un po’ mi rattrista, di fatto: fuori all’aperto la battaglia ci ingaggia nel possedere la volontà di resistere, alla volontà di altri desideranti nella sottomissione altrui. La pace è un concetto ortografico di una pausa… a volte una virgola, e a volte con più fortuna un punto, ma le incursioni dialogiche detonano nella piazza dello scontro diventando carne che si rompe. Ho ricordi degli slogan gridati nei cortei, i quali ora mi sembrano suoni ritmici privi del significato lessicale, e per questa trasformazione in musica la battaglia diventa un gioco. È stata la condizione della gioventù a rendermi un battagliero fante nella strada tra anarchici d’altri tempi, dal sapore d’osteria e tabacco misto a rivoluzione. Idee incerte per noi ragazzi che a malapena ne afferravamo una porzione del senso intero. Ma sufficiente per sognare relazioni e mondi ancora inesplorati nella radura opprimente della sottomissione. Dopo notti ramingo in giro tra chiacchiere e canzoni, me ne tornavo sempre a casa con la speranza di un abbraccio che non c’è mai stato, i cambiamenti allargano la faglia tra generazioni anche se non volute, ed è un attimo trovarsi tra sconosciuti. La descrizione della vita in periferia è un lento lamento in cui la gara si contende in primavera con il ronzio delle mosche ed altri insetti, un piatto volgere degli eventi che si stratifica nello spazio tra pranzo e cena. È in questo clima che da piccolo sognavo la rivoluzione mettendo insieme pezzi di lettura e scorci dei discorsi in un mélange colorato e vivace. Poi tra filari di alberi e siepi filavo in bici sulle vie di campagna sconnesse, con il fango proiettato sulla schiena mentre l’aria scorreva come un sogno tra i capelli e i suoni arrivavano in porzioni strutturate in armoniche melodie. Del resto solo un bambino può permettersi di guardare il mondo senza il discorso sul mondo, osservare linee curve dove il dritto è un impedimento allo sprofondare nelle zolle acerbe della pubertà. Capricci impastati con il lievito per il pane nella notte dove i panettieri reggono il regno degli assonnati alle prime luci dell’alba, e cani con i gatti passano a riscuotere il tributo della loro fedeltà. Bambini spersi nei guai degli adulti trovandosi tra di loro inventano frasi in dialetto per non essere capiti e per sfuggire al morso della raziocinio. Ritornano le fiamme per le strade d’Europa in una convulsa agitazione che scuote nelle fondamenta la certezza del progresso uscito anch’esso dall’ultima guerra. In qualche modo sempre guerra e contesa sono in prima linea per demarcare i nuovi orizzonti, e che alla fine con pause più o meno lunghe saranno prodromi per nuove dispute guerreggiate. Quando in bici sfrecciavo nei campi ancora pieni di rondini a picchiata sul loro mare verde, non sapevo nulla di tutto ciò, ma mi bastava il segreto dello stelo d’erba piegato dal peso della coccinella per sorridere.