Ci sono sentieri in cui è bello inoltrarsi senza pensieri o intendimento, ma semplicemente con un passo via l’altro. Nella viscosità dell’aria si attraversa la concretezza del mondo che scorre ad i lati cogliendo vicendevolmente l’indissolubile relazione tra se e l’altro. Così mi ricordo i primi giorni in montagna quando ho lasciato una pianura che in qualche modo mi ha accompagnato nei passi per i primi trent’anni. È una emozione quando alzando lo sguardo puoi lasciare correre la vista come un cane fedele che poi ritorna gioioso con trofei e meraviglie dall’orizzonte delle vette.
Accarezzare quel vento che scende insieme al Brembo mentre intorno il buio comincia a delineare ombre lunghe è ciò che mi resta tra le mani in questa giornata storta. Ora che vedo con occhi disincanti quel continuo agitarsi della folla scontenta me ne rimango in disparte insieme ad i cani che dei litorali di qualunque natura hanno creato una specialità. Ore scandite da rincorse per ogni faccenda per girare intorno ad un contesto che non sussisterebbe senza la problematizzazione di ogni situazione. Fermo quasi immobile cerco di fermare il girare delle cose che spavalde invadono spazi e pensieri mettendo saldi ceppi alla libertà.
Tornano le ore a rintoccare alla destra del percorso delineato dalla nascita alla fine. Nei paraggi volti e sguardi incitano l’intenzione di passare oltre questo recinto limitato. Adolescente me ne stavo chino sull’ombra delle scarpe proiettata sul selciato, non c’era niente nell’orizzonte che mi attirava. Solo il suono dentro alla testa che poi si spandeva nella circolazione dei fluidi. Nei boschi oggi come allora si può stare senza il fiato sul collo della responsabilità e dall’ intreccio dei doveri in risposta alla sopravvivenza. Un po’ più a valle il fiume che si porta con se il senso della spossatezza di questo momento.
L’esondare in tutti i sensi rompe gli argini ad una sordità protratta con cupidigia, non si vuole cogliere le altre possibilità di stare in un mondo limitato dalla sua propria natura. Un po’ a turno si è vittime e spettatori del rompersi della terra che con essa si inghiotte le case ed i sogni o l’egoismo di molti. Al di sopra continuano a cantare gli uccelli planando su ciò che resta della disgrazia umana ma anche dell’orgoglio di chi non cede mai alle avversità e rimane dritto alle inutili parole degli avvoltoi che sanno come speculare sulla disgrazia.
Un richiamo notturno al di là della staccionata lasciata incustodita da molti anni da uomini che ora non ci sono più. L’abbandono richiama a se i trapassati in questa desertificazione ed anima nell’oscurità la polvere smossa dal vento. I non luoghi inesistenti sono popolati da pensieri concreti che hanno fame di carne e bevono sangue. Per caso passando si viene risucchiati dall’attrazione per l’antico e rivestiti dagli antenati dal ricordo che: “nulla è divisione per cui ogni aspetto dell’apparire è legato a ciò che è velato in eterna dissolvenza”. Ancora titubante cerco i passi segnati sulla sabbia e ritrovo me stesso che sta tornando su i suoi passi.
Le storie albergano sornione nell’animo mentre sdraiati al sole si lascia passare il tempo inevaso dalla futilità. Una mano si alza oltre l’ombra e giocando con il sole si sporge sul limite del crepaccio pensato come rupe nel solco della fantasia. Sono piccioni mischiati a gabbiani le forme che schizzano sopra all’imbrunire nel momento in cui si sta per chiudere con uno sbadiglio. Ora mi riprendo il vecchio sorriso dalla soffitta in cui i ricordi sono buttati alla rinfusa riempendo gli angoli fino al tetto del cielo mentre sotto il bollitore fischia la marcia del presente.