Epifania in jeans

Dall’epifania, si riprendono le fila di un discorso che era rimasto appeso, come un chiodo nel muro, in attesa di trovare il proprio significato. Una mutazione è in atto, sia nel corpo che nel modo di affrancarsi dalla gravità. Cerco di estrarre dai segnali che percepisco intorno a me il senso da attribuire a questo cambiamento. La noia mi assale quando si ripresentano vecchi schemi o parole vuote, pronunciate per convenienza.

Credo che sia in corso una rivoluzione dello stato di vecchiaia, un processo di liberazione da ciò che è superfluo, per poter viaggiare leggeri. La situazione sociale ha subito una trasformazione, frutto di una mescolanza globale, che conferisce alla convivenza una qualità incerta e, soprattutto, imprevedibile. La povertà, sia quella autentica che quella percepita, ha spinto gli individui a far prevalere l’istinto predatorio della natura umana.

In questo contesto, le aspettative nei rapporti sociali appaiono notevolmente ridotte. La distorsione della percezione porta a temere il peggio, alimentando un clima di sfiducia e pessimismo. La sfida diventa quindi quella di trovare in questa mutazione una nuova forma di coesione, di costruire relazioni che possano resistere alla pressione di un mondo instabile e di riscoprire un senso di comunità, pur nella diversità e nell’incertezza. In questa ricerca, potremmo forse intravedere la possibilità di una riscoperta del valore autentico dei legami umani, liberati dagli orpelli e dalle aspettative irrealistiche.

Scrivere per scrivere nella forma e nella sostanza dei ricordi mentre affiorano e poi dissolvono. Senza una tecnica particolare, ma per necessità. Il mondo sotto dettatura riprende la forma di un concreto e si anima del sentimento che, a volte, nella storicizzazione degli eventi, manca. Dalla piccola finestra di provincia, la realtà è velata da pregiudizi, i quali faticano a togliersi dalla luce per incontrare le cose per quel che sono. I popoli parlano lingue diverse, ma i corpi si muovono allo stesso modo.

Cerco di immaginare le relazioni come un film muto in cui l’interpretazione è posta sul movimento e la colonna sonora è composta dai suoni della Terra. Un primo passo per un linguaggio comune in cui il sentimento è il veicolo della comprensione. Come sempre, nelle storture della vita sociale cannibalizzata dal primato della sopraffazione economica, emergono modalità nuove di ritrovarsi, che in realtà sono antiche, ma nel presente dei pensieri delle nuove generazioni sono novità.

La tecnica che domina oggi viene messa da parte per tratti della propria giornata, in modo da riutilizzare i sensi per incontrare le persone. La tecnologia ha la tendenza a fagocitare ogni aspetto del vivere: da mezzo di utilità per raggiungere obiettivi, si trasforma in scopo fine a se stesso. Simbolo di potenza e supremazia, è il giocattolo massificato per una distrazione planetaria, un addomesticamento delle popolazioni medio-povere.

La condizione in cui riporto il mio significare dentro un valore è una condizione faticosa. Basta poco per sentirmi destabilizzato e perso dentro i giudizi altrui. È in questi frangenti che sogno la “frontiera” raccontata da J. London, in solitaria contemplazione della vastità dell’inesplorato. Lascio che lo sguardo fugga via lontano, senza sbarramenti nell’immaginario evocato. Al di qua dei sogni, la terra si fa arida, mentre il gelo cerca di sistemarsi per qualche giorno nelle piazze della città.

Scorrendo i fatti, mi sembra che il trambusto con il freddo sia aumentato. Sarà anche colpa dei tanti cantieri stradali che, a volte, costringono ad aggirare ostacoli; ma, sovente, si incontra gente perennemente arrabbiata. Difficile che capitino incontri gentili, e quando succede ne risulta una sorpresa che, a volte, cambia il clima di una giornata.

Materia più vuoto uguale a zero

Oggi piove dentro al sonno poco prima del risveglio; la sciolina delle auto è inconfondibile sul selciato bagnato. La costruzione della giornata è solo all’inizio, ed il freddo non aiuta ad uscire dal letto. Penso al lavoro che mi attende, il quale in qualche modo risponde a uno scopo. Poi mi viene in mente la conferenza in cui si argomentava che lo spazio tra materia e vuoto è uguale a zero. Quindi, l’universo è sospeso in equilibrio tra la possibilità dell’esserci e il suo contrario, senza una vera predisposizione per l’una o l’altra cosa.

Tra le fila dei miei pensieri prima del risveglio vero e proprio, intravedo che il pensare potrebbe essere cambiato. Avrei voluto andare al funerale di un’amica oggi, ma sento la solitudine della fine come una spada già trafitta nella carne da tempo. Come Lei, lavorerò in quella forma di missione che è peculiare di una certa cultura del sacrificio. Ancora mi torna in mente l’idea che il vuoto, alla fine, non è proprio vuoto, ma è qualcosa: ma cosa?

Comincio a immaginare le forme del quotidiano come aggregati che possono e potrebbero essere anche altro. Comincio a pensare che le cose possano mescolarsi e che il mio corpo non sia più soltanto mio, ma anche di qualcuno o qualcos’altro. Penso all’arte astratta e, in questa logica, torna a farmi senso quella tipologia di figure; penso alla musica dodecafonica e inizio a orientarmi nel paesaggio sonoro.

Questi sono i pensieri che mi colgono prima di essere completamente sveglio e di permettermi un primo gesto verso la possibilità di un caffellatte di soia con miele. L’indugiare su termini e definizioni mi affascina in parte, e in parte mi stanca, al punto che perdo il senso, e uno spaesamento cala come un’ombra nel silenzio di questo mattino. Vorrei un tempo per studiare con calma e non essere costretto a inseguire le ore che inesorabilmente mi sfuggono di mano.

Non è ancora ora di alzarsi, e desidererei che le ore si sciogliessero in una presenza aperta ai sogni. Sento, dall’interno, il rumore e lo scricchiolio degli oggetti che soffrono la fissità. Rimango sorpreso dal vento tumultuoso degli eventi che modificano il mondo a piè sospinto, come in preda a danze sciamaniche che, una volta iniziate, non possono essere fermate. Ma, alla fine, resisto; fermo nel respiro, ascolto solo l’oscillazione dell’aria che entra ed esce. Lo sguardo si posa appena un po’ più in là. Si misura sulla pelle della gente l’insensatezza di ripetere azioni che non funzionano: ci deve essere una ragione per le tante azioni stupide e dannose. Resta difficile accettare che non ci sia una spiegazione, ma, dopotutto, anche la ragione è una invenzione filosofica.

I fatti del giorno, spiattellati dai giornali, si intromettono nella mia routine ancor prima di alzarmi dal letto. Vago tra le pagine, oppure mi immergo in qualche sprazzo culturale, che di questi tempi è piuttosto raro. Sembra che i pensatori siano stati esclusi dall’informazione di massa. Il nostro sistema si regge su una confusione ben orchestrata, dove si mescolano paura di guerra, fame e crisi energetiche. Nella maggior parte dei casi, ciò di cui temiamo di perdere è il superfluo, l’inutile.

Questa dinamica tiene insieme una miriade di persone in una modalità di sopravvivenza che favorisce solo un gruppo ristretto. Il racconto quotidiano dei mezzi di comunicazione mantiene la storia su un asse preordinato, dove una ragionevole confusione riesce a preservare l’ordine.

Nel mio percorso quotidiano, dedico tempo alla lettura di testi filosofici, allenando il mio pensiero alla meditazione della sospensione del pensare. Intorno a questa apparente quiete, le stanze della mia abitazione si animano, e le forme del quotidiano si strutturano in voci e intenzioni.

Palombaro muto

Di fronte al lume acceso, la notte si ritrae quel poco che basta per permettermi di guardarti dormire, mentre il tempo non rintocca come nel giorno. Cammino avanti e indietro nello spazio austero degli oggetti in ombra. Dalla casa piove la polvere che, per forza di gravità, non riesce più a restare negli angoli alti. Questo effetto, illuminato dalla fioca luce, appare come una magia in cui la realtà rarefatta si libera della propria descrizione per abbracciare qualcos’altro. Lasciando che la visione trasporti la fantasia oltre queste mura, mi perdo nel mare infinito dell’arte, che è anche l’unico linguaggio del vero.

Aspetto fermo al mio destino, mentre altri avanzano nell’incontro con la bufera che spira in senso contrario; è la guerra che gela il sentimento in un ristagno di incomprensione. Dal bosco, gli animali si mostrano curiosi per le agitazioni umane, mentre gli esseri umani vivono da sempre ignari di essere osservati con consapevolezza. In questa lunga agonia dell’incertezza, i capitalisti vendono sempre più prodotti inutili. Ormai, i bisogni sono costruiti dall’algoritmo intelligente e da servi privi di mondo. Nel racconto, mi sento uguale in ogni momento al personaggio che viene narrato; in questo risiede la finzione del molteplice.

Nulla appare fuori dall’ombra che custodisce il proprio tesoro. I curiosi vengono attratti dalla reticenza di entrare nel cono e sparire in esso. I racconti del mistero diventano supposizioni di chi si tiene a distanza dall’ignoto. Le varie interpretazioni di quel limite oscuro si tramandano di mano in mano, non comprendendo che già si cammina su sentieri oscuri e tragici. Ora che i miei movimenti sono ridotti al minimo, provo la vertigine di perdermi nei pensieri. Sento, dall’interno, il soffio di una voce che, essendo mia, non è allo stesso tempo mia.

Il racconto degli esseri di luce che visitano la Terra come se fosse un resort è un tema di dialogo per i curiosi. Si tratta di un oltre che si dispone in una descrizione che, allo stesso tempo, è inconoscibile. La strettezza del discorso, o meglio, il sentiero ad infinitum del significato rispetto al significante, che incardina una descrizione, appare non esaustivo per questi curiosi.

Di fatto, l’inclinazione a essere in contraddizione con noi stessi sembra essere la condizione naturale dell’esistere. Il dubbio continuo, o l’oscillazione perpetua tra contrari, sembra rappresentare la nostra caratteristica mentre ci incespichiamo tra le cose del mondo. Parliamo sempre di verità, ma senza che ve ne sia una che rimanga ferma abbastanza da imprimersi nella memoria.

Un sole pallido si intravede tra le case sparse, in un giorno segnato dalla festività. Per un momento, il via vai è attenuato da una leggera foschia, che diventa anche riflesso del sentimento dell’animo. Passeri infreddoliti, finalmente liberati, volano sospesi come palle di neve in cerca degli avanzi di un popolo in diaspora da se stesso. Intravedo cumuli fumanti di legna accatastata nei campi seminati di recente. C’è qualcosa di immobile in questo fermo immagine, che si presta per entrare nei sogni di questa notte. Luci di Natale solitarie illuminano a tratti il leggero sentiero di ghiaia bianca.

Non sempre le parole escono appropriate; anzi, a volte sembrano negare la loro presenza, preferendo rimanere nell’oblio. Con graffi e sputi, rifiutano di evadere, scegliendo il nulla, che non è mai davvero assoluto. Questo ‘essere sempre qualcosa’ – ancor prima di essere – stringe per la gola ogni possibile semantica. Ogni novità originaria nasce nel dubbio che fosse già stata radicata nel sottosuolo del pensiero. A volte, dunque, bisogna turarsi il naso e sprofondare al di sotto delle nominazioni; come un palombaro muto, bisogna attraversare le colonne della ragione. Così, in vista dei fondali, possiamo raccogliere il dono del silenzio per dare cadenza a una nuova poesia.

La notte della Repubblica

La notte della Repubblica risuona nella mia mente come un’epoca rischiosa, in cui, attraverso la nebbia padana, scorgevo i fantasmi dei miei nonni. Nulla è cambiato: il mondo si comporta sempre allo stesso modo e i volti possono sovrapporsi, perdendo contorni distintivi. In questo incedere, il calore della frizione tra i corpi nutre un tempo che può correre sempre più veloce. Di fatto, siamo strumenti nelle mani del destino, il quale, per continuare a scandire le proprie ore, ha bisogno di chi corre. Mi fermo qui a osservare quel poco di verde rimasto in città, chino sul davanzale di un porto.

I miei nonni raccontavano di quando traslocarono con un carretto trainato da un cavallo, un’immagine che risveglia in me ricordi di un’infanzia in cui era comune vedere grandi animali come mucche, tori e cavalli passeggiare per le strade. L’aria di quel tempo era decisamente diversa; ci si poteva immergere nell’azzurro del cielo senza la paura di svanire nel vuoto. Oggi, invece, il continuo trambusto del traffico e l’ansia quotidiana sembrano un po’ falsi, rendendo più difficile la riflessione e l’immersione nei colori del cielo che la modernità offre.

Possiedo ancora una vecchia fotografia dei miei nonni, ma è nei sogni che li ricordo in modo più vivido e nitido, con le emozioni ancora intatte.

Rivive il ricordo delle fitte e cupe trame di un tempo in cui tutto era avvolto nel senso di colpa. Come è possibile crescere in un’ampolla cattolica, dove il dritto e il rovescio si intrecciano simultaneamente? Sotto lo sguardo di Dio, si compiono azioni nefaste, solo per poi essere perdonati. Queste immagini infantili si materializzano davanti a me, prima che una nuvola colorata spazzi via tutta l’immondizia accumulata.

Occorre prestare attenzione a non essere risucchiati dai facili pregiudizi. L’incazzatura, come movimento globale del nostro tempo, non consente a nessuno di riflettere, ma genera un perenne stato di attesa armata. Solo in un bunker ben fornito è possibile permettere al corpo di rilassarsi. In ogni caso, sembra essere una faccenda da privilegiati. Per la massa, rimane l’incertezza tipica dello stato di sopravvivenza.

Il sole irrompe nel freddo con parole quiete, cercando di non attivare la paura o la ritrosia negli sguardi diretti verso la luce. Dalla strada giunge il suono strimpellante di una chitarra, non perfettamente accordata. Sono frammenti di questa giornata che, scorrendo, non potrà più ripetersi se non in brevi spezzoni nella memoria. La voce che percepisco è la mia, muta dentro la mia testa, in dissonanza con quella esterna, rauca e afona.

Il presente si innalza verso il giorno, piegando buone intenzioni in gesti che lentamente si spengono nella fiamma del camino. Oggi desidero che il mondo resti all’esterno di queste mura, scivolando via, inseguito dal fischio del vento che scosta la neve dalle vette. Oltre il cielo intravedo un’altra valle, che si estende per il tempo necessario a un sogno.

Cavalli galoppano, ispirati dal sussurro dell’aria, tra stelle e terra, in una prospettiva futura dove il suolo calpestato non possa mai scomparire.

Rimango sempre un po’ assorto o assente, come chiamato da qualche altra parte rispetto al presente.

Decisamente sbiadito, appaio nei confronti di una vita che invece possiede colori vividi. Seguo la melodia che perennemente risuona tra il fondo del cranio e l’inizio dell’occhio che osserva. L’arte si configura come l’ultima risorsa per cogliere il mondo nella sua totalità. Dietro le quinte si svela ciò che è nascosto ai più, mentre la scena è occupata dal dagherrotipo, che cattura influenze e istanti. Lo schiocco delle mani che applaudono conclude la cerimonia, in cui tutto rimane immutato: inevaso e solo.

Oltre la strada

Si intravede sopra la cresta un leggero vento che solleva l’umore cupo del presente. Sono echi di voci sbiadite e sussurrate, che improvvisamente si fanno spazio nei discorsi già avviati. Un discorso che cerca salvezza e ricomposizione di una fede verso l’animo buono dell’agire, del pensare e dell’incontrarsi. Conto i pochi averi rimasti, come spiccioli per una sopravvivenza incerta. Ormai profughi in tutto il mondo, non è rimasta una casa per la maggior parte. Esuli anche dal proprio corpo, divenuto merce di un mercato miope. Mietitore di anime in attesa del giudizio, quando ancora si abbatterà la catastrofe globale.

I rifiuti si accumulano per strada e nei cortili, simbolo di un tempo caratterizzato da una tempesta di violenza senza senso. La povertà spirituale ha reso gli esseri umani orfani di un rispetto autentico per la vita, conducendoli lungo un sentiero mortifero avvolto nell’oscurità. Questi sono i momenti che preannunciano tempeste destinate a placare il tumulto del vuoto, che spinge il significato del mondo a ridefinirsi in una nuova configurazione.

Osservando il mio contesto ristretto, oltre la strada, i miei occhi si posano su volti che interrogano il nulla. Chiedo, senza pronunciare parola, di essere ascoltato da quei piccioni che, indifferenti, si muovono avanti e indietro in spazi dove io non posso accedere. Desidero un racconto di un paesaggio visto dall’alto, intriso dei colori di un inverno appena iniziato. Stanco di questo continuo osservare, rifletto sulle cose passate, che da qualche parte devono pur essere riposte. Un mare di ricordi irrompe nel presente, cambiando il corso del tempo.

L’infinito si fa protagonista, congelando la direzione del divenire in uno stato di fissità. Per un attimo riesco a immaginare tutto questo, ma poi un raggio di sole filtra, fugace, tra il grigio e la terra, riprendendo il suo viaggio intorno a tutto il resto. Tiro le tende sulla tristezza e sull’incomprensione che scorgo negli sguardi della maggior parte.

Il volo di una mosca nel tempo invernale appare assonnato e a tratti come se si addormentasse per non partire più. Così anche la mia motivazione se ne va a zonzo, un po’ incerta sul da farsi o sul non fare niente. Rispondo alle domande che risuonano nella stanza vuota con parole mute. Il silenzio lascia il sibilo degli spifferi del vento esprimersi in libertà e, come fantasmi, a volte riescono a muovere la realtà. Penso a tratti per scaldarmi e non lasciare che la coltre del gelo mi porti nel suo grembo.

Leggo qualche articolo dal giornale, girovagando per il mondo inquieto e feroce. L’umanità pensa di governare un mondo che non comprende, in cui non è in sintonia. O forse è proprio la narrazione a non essere in empatia con le cose della realtà. Le persone singole vivono da un’altra parte rispetto alla loro rappresentazione. Da qualche parte, una festa allieta delle famiglie che si distraggono da altri eventi in cui altre famiglie sono minacciate. Un’unica storia riempie il reale; ciò che cambia è dove la memoria rimarca gli eventi e dimentica altri, in un’alternanza del caso o del destino, oppure della fede.

La sera è un richiamo per appartarsi alla luce di una lampada, riflettendo sul fiume di pensieri che hanno invaso durante il giorno le forme solide. È una risacca che attenua la presa sul senso e per un momento mi lascia libero di non essere. Una sensazione che sfiora il confine della paura di perdersi, verso sentieri che portano sempre più lontano da casa. Come al solito, un vociare invade il silenzio, spezzando il cordone dell’infinito. Altre parole si riversano nell’ombra tracciata dalla luce artificiale, ricostruendo i suppellettili e riposizionando lo stato di fatto.

Le trottole pensanti

Le trottole pensanti sono chimere sciolte dal vincolo dell’obbedienza, mentre solcano la terra battuta da molti spiriti chinati sul proprio destino. È un’immagine evocativa del lento progredire del dipinto sul muro che separa il giorno dalla notte. Nell’intimità, si possono delineare le figure disturbanti che, di solito, non vengono presentate nei consessi pubblici: personaggi ristretti in spazi inconsci, la cui comparsa in superficie, in alcuni casi, stupisce e spaventa. Tuttavia, sono sempre stati lì, come abitatori della casa a noi propria.

Il clima di sofferenza investe la ruggine sentimentale di chi è rimasto indietro nella foga di altri, accaparrandosi le cose e accumulandole in un sovrappeso imperante. La natura, di per sé, se ne sta in disparte, lanciando ogni tanto colpi ben assestati per richiamare un’attenzione andata persa nella cultura del capitalismo. Sembra quasi impossibile cambiare l’inclinazione del significato dello stare al mondo; tuttavia, sarà inarrestabile la natura quando deciderà di prevalere sui sogni della volontà di potenza.

Non credo che basti raggiungere Marte per sfuggire a questa condizione, perché ovunque si vada, la propria natura ti segue; la pelle, con sangue, vene e tutto il resto, pare siano inscindibili dall’essente.

Mi inoltro, come ogni giorno, nel sentiero scaldato dal sole, che ancora non risparmia il proprio sguardo al mondo. Conto i passi e respiro al loro ritmo, mentre nelle orecchie risuona il ribattere delle suole sulla terra. Il tempo, che determina la mia motivazione al movimento, si attenua, dilatando la percezione di tutto ciò che mi circonda. Camminando, sogno la speranza di passare indenne in altre dimensioni, dove lo spettacolo si mostra nella bellezza mostruosa della verità. Ai lati del sentiero, i richiami e i sussurri degli abitanti del bosco si fanno percepire, ma, con grande dispiacere, non riesco a capire cosa dicano; un poco m’inquieta la sensazione di trovarmi in terra straniera. Un masso a bordo via sembra ideale per una sosta, e così mi fermo nel silenzio dall’umano, da cui il posto è riservato. Rimango stabile nel giorno in cui ho deciso di fermarmi, come un sasso, e riflettendo sul passaggio delle varie ere, nulla sembra più così importante come l’inclinazione del raggio di sole che colpisce il fondo del mio occhio, succhiando una lacrima alla rugiada del giorno. È un dono nel circolo costante delle elargizioni esistenziali, che mantengono il senso di una cultura.

A volte, il pensiero sorvola sugli aggettivi, prestando attenzione unicamente ai nomi propri. Sembra rassicurante un nome che rimane fermo, come una roccia insensibile ai richiami di cambiamento dei predicati. Una favola lilla nel cuore della sera si esplicita attraverso le frequenti gesticolazioni, che sono il vero tema del racconto. Come diciamo a noi stessi le frasi, così ci viene restituito il comportamento. Agisce nel sottosuolo della coscienza la costruzione metafisica del dialogo, che porta con sé la violenza della volontà di ragione.

In questa struttura di incontri e scontri permane l’incomprensione dei viventi, che non vogliono scegliere la colorazione del tempo in cui vivere. Le donne celano una rinnovata possibilità di ridisegnare i confini dei mortali e del loro inconscio, poiché conoscono sia la realtà che l’irrealtà di essa. Possono, se vogliono, ammutolire la violenza, avendo acquisito conoscenza di ogni minima variazione e strategia di essa. Possono tacitare i mostri che, sulla forza di un segno maschile, hanno tratteggiato il modo di comunicare tra le persone. Il verso poetico femmineo accoglie ogni essente in pari misura rispetto alla volontà di potenza delle infinite normazioni.

Tremolante come le mie mani, da cui tutto scivola, anche i pensieri si fanno fumo. La nebbia, a tratti, rende ostile il proseguire verso una destinazione ancora ignota.

Si cammina per la strada

Si cammina per la strada, consapevoli che ad ogni angolo un’ombra può presentarsi, cercando un contatto. La relazione tra umani e ombre non è facile; infatti, queste ultime vengono spesso ignorate, nonostante siano indispensabili nel dualismo di positivo e negativo, come unità. A lungo, uno sguardo furtivo si rivela necessario per assicurarsi che l’ombra sia al suo posto. Tuttavia, possiamo anche dare per scontato che, talvolta, essa scelga di rimanere per conto suo; e in questi momenti, la nostra distrazione riduce le certezze.

Comunque sia, questa parte meno illuminata, frutto della mancanza di luce dovuta alla sovrapposizione, è intrisa di poesia e significato, rappresentando sempre qualcosa di altro rispetto a sé. Quando compare l’ombra – o la nostra ombra – siamo pronti a guardare oltre il finito, verso una dimensione che si apre infinitamente nel fantastico creativo. Questa è una meditazione guidata dall’imbrunire delle cose, in un tempo dilatato dalla percezione sopita della realtà.

Ritornando per strada, il ricordo della tua voce risuona anche nell’ombra, evocando sentimenti che oscillano tra chiaro e scuro, a perpendicolo dalle facciate umanizzate dei palazzi. Mi tengo in serbo un pianto per quando la carestia colpirà anche la baldanza dell’Occidente.

Alla memoria risuona un motivetto contrappuntato, pieno di biscrome, saltellante come un grillo tra orecchio e occhio. Mi perdo nel tempo della musica, lasciando che l’angoscia molli gli ormeggi dai miei porti. La fatica pesa sulle spalle, mentre il vento sterza le opinioni altrui, che, come al solito, cercano fondamento.

Resto quieto, al di qua del mare. Dalle mie spalle, le montagne glabre testimoniano il cambiamento climatico, un’onda persistente nelle menti e nelle ossa di intere generazioni. Volano aquile, degne di un romanzo epico, sopra al fiume di parole sprecate, destinate ad incendiare i boschi. Sogno di accarezzare la tastiera di un pianoforte con tutti i tasti neri, con il suono che si riverbera simultaneamente davanti e dietro, in tutte le direzioni, in modo che non vi sia altro spazio vuoto se non il momento della pausa musicale.

Le vibrazioni tagliano il reale in segmenti che si riposizionano per attrazione in configurazioni sempre nuove. Un brano suonato diventa un atto onnicomprensivo della coscienza, che contempla il contemplato mentre le proprie dita scorrono sulla tastiera nera nel sogno. Non c’è risveglio nella totalità di un momento, ma una lenta conversione a pensare di essere sveglio.

Una storia vive sempre nel tempo, mentre chi guarda o interpreta sospende per un attimo la propria temporalità per assumerne un’altra. Si gioca su più palcoscenici per viaggiare restando fermi, risparmiando il corpo, che si trova limitato rispetto alla coscienza. Il male di vivere è una condizione che inchioda il pensare a un’unica storia e a un unico tempo, prigioniero di un senso unico e direzionale del pensiero.

A volte, non serve solcare oceani, attraversare vaste pianure o scalare vette e avvallamenti per vedere il mondo. Attraverso il senso che diamo alle cose, possiamo sciogliere il legame con cui nominiamo la realtà, sbaragliando il costrutto storicizzato di noi stessi e liberandoci dal peso della consuetudine. Almeno per un attimo, possiamo sbirciare nel piano metafisico.

Corbellerie si susseguono nella volontà di scrivere, come se ad un certo punto, al di sotto del segno scritto e poi sotto alla carta, s’aprisse un vano immenso in cui perdersi, presi da una vertigine per la mancanza improvvisa di appoggio. Sento da oltre la porta chiamare, senza che vi sia nulla da rispondere. Attendo quindi che la questione si diradi da sola, poiché non sento di essere in quel posto, dietro a quella porta, in quel momento in cui, al mattino, è comparso il sole di fine autunno.

Come nulla…

I fatti si spengono al limitare della costa, travolti dal profumo tenue del mare, che si spinge nell’immaginario del camminante sulla terra ferma. Una città ed i suoi contorni si slanciano nella sofficità delle nuvole, che oramai hanno preso l’abitudine al rosa. Le storie formano la stabilità identitaria, in un continuo brusio di voci sussurrate che, dal cavallo alla ruota, corrono lunghe le strade. Il mio punto di vista è solo un momento che poi si disperde nel ceruleo sguardo dei molti.

Come al solito, la discussione si protrae oltre gli orari notturni, intrufolandosi nel chiarore del mattino, accompagnata dai primi suoni del risveglio. Le parole, sgranate con una corte di significato, riempiono il vuoto che resta del discorso, mentre gli sguardi accigliati si ritirano per un lungo sonno. È consuetudine ritrovarsi nella bettola di turno, dove, tra l’odore di muffa delle bottiglie invecchiate, si creano sinfonie con racconti improbabili e utopie altrettanto evanescenti. I libri letti costituiscono uno sfondo che, una volta svelato, rimane incorruttibile dietro l’agire quotidiano. Sono una fonte di soccorso che di volta in volta supplisce all’inciampo del ragionamento.

L’idea è la solita che si aggira da sempre: “È possibile tra gli esseri umani fare a meno della violenza?” Ci hanno provato gli anarchici a dare una risposta in modo utopistico, prefigurando uno scenario futuro in cui si sono mischiati alla volontà di potenza di cambiare anche con violenza le cose. Di fatto, nella rigidità della separazione tra oggetti, natura vegetale o animale, uomini e dèi, la violenza è di casa, perché non c’è modo di muoversi senza urtare un qualcos’altro. Non credo che sia impossibile uscire dal dilemma, ma per prima cosa serve eliminare la ricchezza dei beni come concetto, in favore di una cooperazione e distribuzione dei beni di sussistenza. Come quattro vecchietti al bar, si può discutere di tutto. Quando rimane poco da temere, le idee si rischiarano nel graffio ruvido della nudità. In effetti, le vite di milioni di persone presentano una variabilità infinita, ma le idee che attecchiscono nella fioritura del tempo non sono molte. La cultura guida il gioco della massa in un recinto ristretto, obbligando le persone a guardarsi e a giudicarsi. I concetti sono posti sul tavolo come un carico che si amplifica nel rimbalzo della discussione e nella soddisfazione di sentirsi a casa.

Come nulla, le camicie vengono piegate sapientemente da una tradizione che si perpetua tra gesti simili e contemporaneamente diversi. Lineamenti invisibili collegano la progenie, che cerca di mantenere, per quel che può, una descrizione del mondo più o meno accettabile per chi si affaccia alla mortalità. Forse non è necessario, per esistere, accettare l’esistenza, ma di fatto nessuno si ribella, e la via è occlusa verso una possibilità altra di stare nel mondo o nel non-mondo, nel tutto o nel niente, o in ciò che è innominabile. Un testimone o un sussurro potrebbero indicare la svolta verso l’altrove, che non si arena su nessuna parola data.

Da bambino, bastava poco per aprire nella fenditura dell’aria un cosmo inesplorato e sparire per ore, fino a essere ritrovati dalle braccia di una madre dubbiosa su dove fossi stato. Con il tempo, la fretta ha lasciato in sospeso tutte le fenditure che a volte ti rapiscono in un breve viaggio lungo l’impossibile, che però ha il sapore della verità. Ti vengo a trovare sempre più spesso quando non te ne accorgi; il mio amore è diventato silenzioso e furtivo. Uno sguardo si posa mentre l’altro è in procinto di una svolta, un bacio mentre l’altro scivola nel sonno, cullato solo dalla presenza sicura.

Sullo sfondo il mare

Sullo sfondo inizia a manifestarsi la parola che, caduta dalla voce muta, sobbalza nel vuoto fino a raggiungere il piano della vista. È un ricordo cristallizzato, risalente a un giorno estivo trascorso sulla spiaggia, dove il sale e il vento si mescolano all’umida sensazione del dopo bagno. Un sguardo tra di noi: ci siamo scelti per una vita e il mondo esterno svanisce, avvolto nella condensa dei vapori di un’esistenza alla deriva. Da quel giorno sono emersi molti “volevo che”, ma sono rimasti atoni, bloccati dalla mia incapacità di immergermi nelle emozioni. Ora, mentre il corpo si rinsecchisce in una dolorosa inefficacia, ricordo con nostalgia l’unico gesto fruttuoso del vigore: quello di fendere l’aria correndo.

Per me, il lavoro non è mai stato un obbligo, ma piuttosto una fonte di divertimento: educare mi ha sempre appassionato, e probabilmente avrei avuto consenso in qualsiasi contesto. Solo le circostanze della mia biografia mi hanno indirizzato verso l’educazione degli adulti. Mi piace cogliere nelle storie la trama inconscia e osservare la palude in cui le emozioni altrui si incagliano in comportamenti bizzarri e spesso autodistruttivi. Insegno le forme del cambiamento là dove, di solito, le persone vedono un muro inviolabile di cemento. Nelle pieghe di questa realtà immutabile, sussiste l’immensità della fantasia, che offre la possibilità di ridipingere le radici del reale.

La mutevolezza, insieme alla comunanza, attrae le sensazioni in relazioni che, nella loro costruzione visiva, assumono la forma di grandi affreschi rappresentativi delle gesta umane. Il senso della qualità espressiva che si intende conferire alla creatività indica una direzione che può oscillare tra il bene e il male. In un momento storico in cui tutto sembra ridotto a merce priva di una qualità etica, la violenza appare come il veicolo predominante per qualificare le relazioni tra uomini, cose e natura. Si impone una legge verticale che costringe ciascuno di noi a tentare scalate impossibili per dare un senso al proprio esistere.

La riflessione che cerco nel giogo delle passioni riguarda la possibilità di esistere in un modo differente, un modo di condurre il gioco che non sia dettato dallo sguardo o dalle sue infinite metafore. Un modo di essere umani che non riduca la carne a uno specchio riflettente di uno spirito. In Heidegger, l’atto appare come la parola che indica un salto verso una unità, ma le prefigurazioni non sono vita, e non esiste ancora testimonianza di un altrove. Di conseguenza, il senso di frustrazione pervade la cedevolezza verso la presunzione della cattiveria.

Il dialogo che si diffonde all’interno investe le cellule, modificando nel suo cammino la struttura dell’abitare sé stessi. È un flusso che riverbera nello spazio, inglobando attribuzioni di senso a tutto ciò che incontra. In questo vagabondare si trova l’educazione delle calze spaiate, delle camicie con il bottone mancante e dei capelli incolti. È un sussurro che invita al rimescolamento delle cose certe e all’uso scontato degli oggetti e degli aggettivi. Rimbalzando di nuovo tra i contrari, ci si trova faccia a faccia con il senso cercato, regalando un sorriso per un momento di felicità.

Si sente l’odore del lago mentre parcheggio e mi chiudo nel servizio; se il traffico fosse meno intenso, probabilmente potrei anche udire il suono del vento che scivola dalla montagna fino all’acqua. Vorrei trarre maggiore ispirazione da questo luogo, dove conosco più l’umano che la terra, ma avverto la vecchiaia che desidera altro e si rifiuta di continuare a creare parole. Nel riflesso della finestra scorgo uno sguardo malinconico, che prova dispiacere per tutti quelli che non ce la fanno. Mi dispiaccio anche per me, che non vorrei più fare ciò che non mi va, ma vorrei sentire che il mio tempo è prezioso, sia per me che per gli altri.

La comunità

Caro amico, so che ti trovi in comunità e stai pensando di andartene perché la sobrietà ti spaventa. Fermati un attimo: lascia che i tuoi pensieri non influenzino il tuo umore, ma permetti al tuo sguardo di posarsi sul giardino della comunità, ornato dai colori autunnali. Per un momento, segui la traiettoria del tempo e immagina quanto sarebbe bello vedere il cambiamento dei colori degli alberi fino a raggiungere il vivido verde dell’estate. Solo godendo della natura, il tempo ti offrirà uno spazio in più per la sobrietà, e non è detto che tu non possa scoprire un nuovo piacere in essa. Voglio dirti che comprendo quanto possa essere intenso e talvolta insostenibile il dolore del cambiamento, ma ti garantisco che la pace che ne deriva è un regalo prezioso per te e per la tua famiglia.

Certo, sono solo parole gettate come un laccio, atte a fermare l’intento di tornare nella sofferenza, un male ormai divenuto la terra sicura della propria identità. Questo è in contrasto con un salto nell’ignoto, che può risultare difficile, facendoci faticare per ambientarci e costruire relazioni e affetti senza il mediatore stupefacente che è la sostanza. Per la prima volta, ci si trova soli nel mondo, costretti a prendere decisioni e scegliere un campo da gioco nella vita che rispecchia ciò che si desidera essere o a scoprire chi si è realmente.

La comunità rappresenta sicuramente un luogo in cui la finzione si dissolve; infatti, è arduo mentire ai propri pari, che condividono esperienze e dolori simili. Tuttavia, è questa consapevolezza dello svelamento a rendere il luogo una cura: rispecchiandoci negli altri, diventa difficile evitare una riflessione su ciò che siamo diventati attraverso il consumo di sostanze e alcol. Il contesto comunitario esprime una sua unicità d’esperienza, difficile da vivere nella quotidianità, ma sarebbe un’ottima opportunità per tutti i giovani che si avviano a diventare indipendenti dalle famiglie d’origine.

Attualmente, manca nel contesto sociale una maggiore diffusione della cultura esperienziale della comunità, che è relegata nei luoghi appartati dedicati a persone con patologie stigmatizzanti. Il modello di convivenza comunitario ha, infatti, una forte valenza socializzante, creando un legame reciproco tra l’individuo, l’altro e la natura, come dovrebbe essere in tutti i contesti sociali.

L’interruzione della comunicazione viscerale tra l’umanità, il mondo e la natura, sia animale che vegetale, è ciò che rende malata la singolarità. Persa nell’insignificanza delle cose, questa diventa schiava di un’auto-centratura che si rivolge contro tutti, poiché è perennemente spaventata dall’“altro”. Il singolo vive nel costante sentimento di minaccia, senza affrontare la finitezza della propria esistenza, che è la morte.

Oltre a ciò, ci sono molte persone che vivono in co-dipendenza. Questi individui, pur non facendo uso di sostanze o alcol, assumono comportamenti e pensieri tossicofilici a causa di affetti, amore e legami familiari. Per loro, spesso non c’è l’opportunità di sperimentare la comunanza in comunità né di riappropriarsi della propria identità. Anche quando il familiare consumatore subisce un cambiamento, queste persone rimangono intrappolate in un limbo, in una sorta di terra di nessuno. La colpa per una situazione costruita nella disfunzionalità perdura nel quotidiano, privandole così del benessere derivante da qualsiasi cambiamento.