Il canto del drogato è rauco e risuona nei confini bassi della coscienza. Una metropoli vale l’altra quando il velo dello stordimento avvolge lo sguardo. Non si tengono i conti e nemmeno si ricordano gli incontri; accade ciò che avviene in un presente sempre un po’ evanescente. Ascolto tra le macerie i lamenti e i richiami degli esclusi dal giorno della rinascita. Non tutti possono partecipare alla mondità; anzi, vengono costruiti margini appositi, come contenitori senza via di fuga. Quando si appartiene a una categoria, difficilmente si esce dal confine predisposto. Il drogato è un “talpone” che la buca se la costruisce da sé.
Luoghi infrattati nel sottobosco umano, dove in solitudine si consuma un divorzio dal proprio essere. Non tutti accettano di vivere l’esistenza e la sua perenne domanda enigmatica: il ricorsivo interrogativo della presenza in quanto tale, per poi sparire per sempre. Domande e risposte si rincorrono in un’eterna oscillazione che sembra priva di contenimento. Tra le varie scene di un avanspettacolo, la più propizia somiglia a un bianco e nero degli anni cinquanta. Tornare indietro per andare avanti sembra essere il richiamo dell’arte, una forma di riflessione sul passato “presentizzato” nel linguaggio che ci è proprio. Avanti e indietro del discorso che scivola tra generazioni fino a produrre distillati da collezione.
Le curve dell’odio sono inclinazioni ottuse per coloro che desiderano le cose degli altri, “altri” intesi in senso generale e non bene identificati. Si tratta di un sentimento che brucia nella rabbia del disadattato, in un mondo che di solito non lascia scampo a una vita grama. Piegarsi al desiderio è la condizione che porta a perdersi: l’identità viene strappata dall’essere per consegnarsi agli oggetti del desiderio, in una perpetua dissolvenza e incongruenza con se stessi. Si sta male nelle relazioni perché gli altri diventano sempre competitori; si sta male con se stessi perché si diventa estranei alla propria coscienza. In questa situazione, la consolazione e il medicamento rimangono l’amarezza e la cattiveria.
Inforcata la bicicletta, lo scenario scorre e l’aria rasserena la tristezza. Con un po’ di impeto, è possibile spezzare quel senso di disfatta in cui si cade, corrosi dal conflitto quotidiano. La leggerezza diventa un antidoto al tumulto delle onde minacciose. Atomi che si infrangono nell’alternanza perpetua di apparire o sparire nelle possibilità dello spazio. Anche noi, quotidianamente, siamo e non siamo, in forza di come pensiamo e, di conseguenza, abitiamo il linguaggio. Senza di esso, potremmo liberarci di questo mondo per tornare nella fluttuazione della possibilità.
C’è un tempo per guardarsi intorno e non vedere nulla, come se un velo fosse calato sulla comprensione. Innumerevoli tentativi di connessione si scontrano con un rifiuto alla realtà; mentre cammino, schivo le buche che si fanno sempre più profonde e minacciose. La mia inconsolabile stanchezza affonda nella passione per una professione che ora non mi serve più. A volte, la noia arriva improvvisa e il suono del cembalo diventa afono; la musica resta forzata, imprigionata al di sotto dell’udibilità. Così, cerco il suono della tua voce, e come una Euridice, seguo la via d’uscita.
I toni dell’umore si configurano come un balsamo nella frivolezza di una stanza disadorna. Ora mi accingo a muovermi nella contea dell’inconsistenza, in compagnia di maghi e fate, sotto il cielo stellato del mattino, in un fugace cambio con l’azzurro umido del risveglio. Sento la forzatura della tirannide nelle consuetudini che obbligano a movimenti e pensieri. Ma non posso farci niente: all’orizzonte, solo un’altra ripetizione del già visto. Racconto storie all’ombra della casa o lungo le vie che si dipanano dai miei ricordi, mescolandosi nella confusa frastagliatura del tempo in cui i vari centri storici si aggrovigliano a spirale.