A volte la noia arriva improvvisa

Il canto del drogato è rauco e risuona nei confini bassi della coscienza. Una metropoli vale l’altra quando il velo dello stordimento avvolge lo sguardo. Non si tengono i conti e nemmeno si ricordano gli incontri; accade ciò che avviene in un presente sempre un po’ evanescente. Ascolto tra le macerie i lamenti e i richiami degli esclusi dal giorno della rinascita. Non tutti possono partecipare alla mondità; anzi, vengono costruiti margini appositi, come contenitori senza via di fuga. Quando si appartiene a una categoria, difficilmente si esce dal confine predisposto. Il drogato è un “talpone” che la buca se la costruisce da sé.

Luoghi infrattati nel sottobosco umano, dove in solitudine si consuma un divorzio dal proprio essere. Non tutti accettano di vivere l’esistenza e la sua perenne domanda enigmatica: il ricorsivo interrogativo della presenza in quanto tale, per poi sparire per sempre. Domande e risposte si rincorrono in un’eterna oscillazione che sembra priva di contenimento. Tra le varie scene di un avanspettacolo, la più propizia somiglia a un bianco e nero degli anni cinquanta. Tornare indietro per andare avanti sembra essere il richiamo dell’arte, una forma di riflessione sul passato “presentizzato” nel linguaggio che ci è proprio. Avanti e indietro del discorso che scivola tra generazioni fino a produrre distillati da collezione.

Le curve dell’odio sono inclinazioni ottuse per coloro che desiderano le cose degli altri, “altri” intesi in senso generale e non bene identificati. Si tratta di un sentimento che brucia nella rabbia del disadattato, in un mondo che di solito non lascia scampo a una vita grama. Piegarsi al desiderio è la condizione che porta a perdersi: l’identità viene strappata dall’essere per consegnarsi agli oggetti del desiderio, in una perpetua dissolvenza e incongruenza con se stessi. Si sta male nelle relazioni perché gli altri diventano sempre competitori; si sta male con se stessi perché si diventa estranei alla propria coscienza. In questa situazione, la consolazione e il medicamento rimangono l’amarezza e la cattiveria.

Inforcata la bicicletta, lo scenario scorre e l’aria rasserena la tristezza. Con un po’ di impeto, è possibile spezzare quel senso di disfatta in cui si cade, corrosi dal conflitto quotidiano. La leggerezza diventa un antidoto al tumulto delle onde minacciose. Atomi che si infrangono nell’alternanza perpetua di apparire o sparire nelle possibilità dello spazio. Anche noi, quotidianamente, siamo e non siamo, in forza di come pensiamo e, di conseguenza, abitiamo il linguaggio. Senza di esso, potremmo liberarci di questo mondo per tornare nella fluttuazione della possibilità.

C’è un tempo per guardarsi intorno e non vedere nulla, come se un velo fosse calato sulla comprensione. Innumerevoli tentativi di connessione si scontrano con un rifiuto alla realtà; mentre cammino, schivo le buche che si fanno sempre più profonde e minacciose. La mia inconsolabile stanchezza affonda nella passione per una professione che ora non mi serve più. A volte, la noia arriva improvvisa e il suono del cembalo diventa afono; la musica resta forzata, imprigionata al di sotto dell’udibilità. Così, cerco il suono della tua voce, e come una Euridice, seguo la via d’uscita.

I toni dell’umore si configurano come un balsamo nella frivolezza di una stanza disadorna. Ora mi accingo a muovermi nella contea dell’inconsistenza, in compagnia di maghi e fate, sotto il cielo stellato del mattino, in un fugace cambio con l’azzurro umido del risveglio. Sento la forzatura della tirannide nelle consuetudini che obbligano a movimenti e pensieri. Ma non posso farci niente: all’orizzonte, solo un’altra ripetizione del già visto. Racconto storie all’ombra della casa o lungo le vie che si dipanano dai miei ricordi, mescolandosi nella confusa frastagliatura del tempo in cui i vari centri storici si aggrovigliano a spirale.

Danza sul filo di vento

Nella stanza, un alveare si confronta con la curiosità; differenti, ma uguali, si scrutano nella penombra. Da sempre le visioni dei vari animali si intrecciano e coesistono. Gli abitatori del linguaggio “descrivono”, mentre gli abitanti dell’atto “sono”. Al termine di questo giorno, probabilmente, le parole cesseranno. Un mondo privo di descrizione ridiventerà polvere, come nel Vecchio Testamento. I rumori che filtrano dalle finestre aperte sono insopportabili; il rullo di questa vita è asintotico rispetto a ogni tentativo di trasformazione.

Nelle vicinanze, l’alba si fa strada nel buio della stanza, mentre i naufraghi si ritrovano tra le mura domestiche. La memoria scivola via, e gli oggetti circostanti si tingono di estraneità. Ci si abbandona al silenzio che finalmente soppianta il rumore di fondo, segnalando il destino. La mia consuetudine di scrivere intrappola parole e fantasmi tra incertezza e fantasia. Una solitudine cala su di me come una bevanda sgradevole, impotente a cambiarne il sapore. C’è qualcosa intorno che non si percepisce con gli occhi, ma che troneggia nei punti ciechi della visione: una forma di inquietudine che increspa la vita in una spirale funesta.

La casa delle parole è alla periferia di tutte le strade possibili. Nel complesso abitativo dell’inumano prima che si trasformi in detto. La cifra dell’ingenuità è il ricorso alle continue costruzioni di cattedrali che poi serve abbattere. Nella incessante discontinuità si trova la forma amicale della sosta. In qualche bettola ad i margini del grande flusso. Si può fare battute di spirito nella calma di quando ci si ferma. E…tutto l’assurdo a cui si rincorre appare vano e inutile. Le idee possono essere espresse e contraddette senza che vi sia allarme. Nella casa delle parole abita l’essere che ancora non è. Restando in attesa che l’umano ne capisca l’essenza.

Spaventato e ansioso mi rimetto ad un senso d’attesa, gli oggetti quotidiani mi sembrano estranei. Non sempre il senso del controllo aiuta, anzi è proprio ciò che fa perdere la sicurezza. La magia della sospensione inconsapevole a volte non riesce e resto nel vano della cruda realtà. Il sole già alto ribolle tra le stanze e il corpo inizia una lenta insofferenza. Mi racconto la storia di questa città che da alcuni anni è diventata lo scenario di crimini un tempo solo letti. Una città che crescendo fatica a trovare una sua identità.

Una quadro descrive colori, odori e suoni fantasma nell’impressione immediata; solo in seguito, le forme prendono il sopravvento. Se l’attimo iniziale potesse durare, forse potremmo incontrare l’anima dell’artista. Mi sorprende lo smalto dei muri e le incrostazioni degli edifici abbandonati, in cui emergono da sempre forme che rappresentano la mia anima. L’insofferenza risale la china per le grida e le parole buttate via, mangiate, ingurgitate intere e sputate come nulla. Ormai si possono vedere ovunque carcasse di linguaggio lasciate in strada come liquami. Sento il mutismo avvolgermi e tramontare con esso nella radura dei silenti.

Giostrando di metafora in metafora, si può alla fine del giorno incontrare la notte. Nel buio, la quiete toglie gli oggetti da torno. Solo i suoni emergono come miasmi improvvisi. Finisce un mese dentro un anno che, per il mio corpo, appare incerto. È come una fermata ferroviaria sperduta nella campagna, in un momento in cui la stazione deserta rappresenta solo se stessa. Condizionato dall’essere solo, il dialogo interno si fa urgente. Alla fine, però, anche le cose dette tacciono e resta una sosta nel ventre della terra. La polvere si alza per il caldo e danza sul filo di vento fino a sparire.

Una sola goccia

Qualcosa si muove dallo sfondo, riflesso nell’occhio indagatore. Una curiosità che spinge a conoscere, anche se non ce n’è l’estremo bisogno. Una qualità o maledizione che ci contraddistingue è il continuo interrogarci sul “perché”. Alla fine, il cammino della vita è una catena che si sussegue in una risoluzione di problemi. Cosa saremmo se restassimo orfani di problematiche? Forse diventeremmo depressi, privi di uno scopo, oppure potremmo riconciliarci con il mondo seguendo il moto naturale dell’essere.

Nella routine, tutto sembra dover avvenire come accade, ma ascoltando meglio, qualcosa sussurra che non è proprio così. In qualche modo, siamo costretti ad una scissione dal dialogo interno, rendendoci inesorabilmente incompleti. Ognuno è diviso, senza via d’uscita; il linguaggio ti inchioda a salire sul proprio carro di competenza e, da quel momento, le espressioni linguistiche ci rendono dei multipli di sé.

Il sole frange a cascata le ossa ridotte a polvere, nell’intervallo di tempo che vede distrutto un altare. Il rumore della guerra è vicino, e l’alito dei morti comincia a farsi sentire nell’aria. Resto paralizzato al pensiero dello squartamento di uomini, animali, piante e molluschi. Ripeto senza voce alcune strofe poetiche come una preghiera, cercando invano di far attecchire un sentimento d’amore in queste strade deserte.

Una sola goccia d’acqua contiene un sapere che noi non vediamo. Siamo miopi osservatori della parvenza, a cui diamo nomi scrupolosi quanto inutili. Da tempo si è perso l’istinto che unisce ogni essente in quanto tale. Oggi il bivacco è preparato tra le rime di una canzone e il ricordo del secolo scorso. Questo avviene per quelli della mia generazione, poiché il riferimento nel mondo è un “secolo scorso”. Le mani portano i calli degli strumenti analogici, e nella memoria la natura digitale è un ospite a volte mal sopportato.

Frequentando lunghe disquisizioni sul nulla, a volte sogno le avventure della frontiera. Dalle cime dei rami più alti si scruta un altrove, che trova sedimento nella fantasia incarnata dell’avventura. La memoria ha la possibilità di ripercorrere i momenti d’audacia e di ricostruirli nel teatro casalingo. Le mani, sprofondate nella terra tra i campi irrigati, cercano la vita sottostante, incuranti dei pericoli che, solo ipotizzati, non si sono mai verificati.

Già di mattina presto, il rombo del trattore inizia un avanti e indietro sopra i campi. Ci si diverte a salire sul suo fianco, osservando l’impronta che lascia nel terreno; un segno che, una volta arso dal sole, permane nel tempo.

Le bombe sfiorano ogni illusione di rinascita. Il tempo in cui guardare oltre la staccionata è terminato. La volontà di potenza si ripercuote sulla bontà. L’effetto del mondo in guerra è che ogni individuo è in lotta con sé e gli altri. Vengono sepolti i buoni propositi per lasciare che scorrano parole con poco senso. Una gita in periferia tra i resti delle case abbandonate e vecchie fabbriche dismesse. Un tuffo in diverse posizioni del tempo tra oscillazioni di quello che è stato e ciò che ancora non c’è. Dentro a questo camminare per uscire dalla routine della incertezza del tragico. Cerco la commozione negli occhi di chi amo per sciogliere quel grumo che ritrovo al risveglio. Una sconfitta che permane nel ricordo fino a farne un continuo rimprovero. Il dolore o sofferenza come chiave di volta del senso della vita. Il Buddha ha colto questo come metodo per aprire il sentiero. Cerco solo dí capirmi e andare avanti e indietro in questo scenario. Poche formule sono adatte a ricomporre la serenità. Il cane che dorme, uno sguardo stucchevole di complicità, una vita insieme senza rimpianti. Una casa che invecchia e dà preoccupazioni, ma è la propria casa con chi ci deve stare.

Amici d’avventura

La condensa appanna i vetri, velando gli occhi di tristezza. Il sapore della cottura riempie la cucina, mentre strane immagini si proiettano sugli oggetti. Niente è ciò che sembra: un romanzo giallo racchiuso in un pensiero. Non vorrei girare le spalle a questo scenario, ma… incombe la preveggenza di dover lasciare andare qualcosa che potrebbe ferire. Scorticato dal mio stesso volere, che non so se sia davvero mio, volgo le spalle al nulla e m’incammino nella nebbia di un paesaggio ancora da tracciare. Alla fine, sono solo riflessioni; il reale è qualcosa che attende sempre un poco più in là.

Nell’immediato, sento il respiro e il segno dell’assenza diventa insostenibile senza ossigeno. Qualcosa già pensa per me e ha calcolato le possibilità. Con spirito magnanimo, lascia che abbia fiducia nella scelta. Nel voltarmi di scatto, sento l’impulso di cogliere sul fatto il suggeritore. Ma la mia è una lentezza umana, perennemente mancante. Oggi, smetto con le gare e attendo la conclusione di una giornata col sapore della sera. Da altre parti si intona un canto, e in altre ancora si lasciano tracce. È la volontà di essere notati dalla stessa volontà d’esistere, in una radura di non senso.

Tra le rive dei fossati, la vegetazione è più verde e rigogliosa, e si possono incontrare i visitatori provenienti dalla terra di sotto. Giocare tra le acque basse dei piccoli canali d’irrigazione è il massimo divertimento per i bambini del paese. Nei pomeriggi assolati, gli schiamazzi nella campagna diventano il centro del mondo. Con poco, il divertimento è assicurato e la fantasia corre libera tra la distesa vegetale.

Ritorna il tempo del rimembrare il paesaggio infantile, mentre, rintanato nella cuccia cittadina, mi lascio andare all’inerzia alla scrivania. Di solito, il mattino presto è il momento in cui si sente maggiormente il canto degli uccelli. È il tempo migliore per rinsaldare una consuetudine con i viventi.

La giostra della vita gira un po’ per tutti, anche se non tutti si divertono. Esiste una categoria di persone, dette “osservatori”, che non si mischiano nella mischia, ma rimangono lì, fermi in apparente assenza emotiva. Ed è così che il mondo può sguazzare nella disuguaglianza: molti, sentendosi non direttamente coinvolti, osservano e passano oltre. Certo, questo non è il motivo dei mali del mondo, ma rappresenta un aspetto curioso. La qualità dell’esserci è spesso permeata dalla codardia e da una certa dose di cattiveria verso la propria specie. Riconoscere la bontà nel “baluame” del fare umano è un compito arduo per l’uomo di fede.

La ripetizione è simile al salmodiare nel racconto dell’esistere, un modo per vincere l’erranza, che risulta più forte dell’identità. Nell’insolita cornice della periferia, camminiamo con timore, sovrastati da alti palazzi sonnacchiosi al sole estivo. Temo il morire più della morte, un’ombra che può presentarsi anche nella luce dei colori. Le solite liturgie m’attirano verso luoghi familiari; difficilmente mi appare un paesaggio tinto di novità. Come le mie cento parole, che scorrono via come il sapone sotto la doccia. Una volta andate, diventano altro per sempre.

Un rifugio sicuro è la ripetizione, che inchioda il pensiero a un rallentamento. Sembra che tutto avvenga nella testa, ma in realtà sono i lombi a dolere. Gli stati emotivi si susseguono senza controllo, invadendo corsie opposte. Da dentro non riesco a percepire nulla. Il corpo va a sbattere e, forse solo il giorno dopo, mi accorgo dei lividi. Una melodia del passato si deposita sulle lacrime di oggi. E rivedo una scena antica, quando osservare il cielo notturno non era un problema, ma un privilegio. E ci si voleva bene senza ritegno, fra amici d’avventura.

Tra una roccia ed il mare

L’intonaco scrostato è il segno di una partenza. L’abitare in questa casa ha concluso la propria storia. Un inizio altrove invita a pensare oltre la staccionata. I cambiamenti, sebbene appaiano lenti, sono inesorabili. La macchina della storia gira come una macina, e nulla dell’umano, finora, l’ha contrastata. Ripenso alle albe: intraviste solo di sfuggita tra i tetti e i rumori di una città che si sveglia. Non è possibile lasciare correre lo sguardo verso il limitare, dove cielo e terra si incontrano.

Una stretta di mano suggella il riconoscimento tra i bari dell’osteria. Ingannare la vita mentre si distrae, dando per scontata la servitù. Una mano giocata dopo l’altra verso il sogno di vivere più a lungo. Ci si trova così tra pari, complici di un disegno esistenziale che sfugge alla livella: tra troppo poco o troppo tanto. Un tentativo di rompere il sodalizio con le parole e intraprendere la via della carne e del sangue per comunicare. Le giornate che attendono si schiariscono man mano che la notte si ritira, invitando a uscire per prendersi il proprio pezzo. Un saluto al sole che si riconosce nella nostra pelle.

Una stretta al cuore mentre guardo attraverso una fotografia qualcuno che, con i capelli bianchi, somiglia a me. È un’insolita sensazione di disgiunzione e precarietà identitaria. Mi sento come su un ring, colpito da diretti e rovesci. La realtà che mi circonda è quella che fatica a lasciarsi mollare. Da essa, subisco le continue fluttuazioni delle frustrazioni. Non c’è nulla che riesca a conciliarsi con i buoni sentimenti; è un continuo cannibalismo del linguaggio, nella ricerca di una supremazia che ci ruba l’uno all’altro.

Non fa differenza il colore della pelle, poiché tutti noi onoriamo la crudeltà e riconosciamo nell’altro il seme perpetuo della minaccia. Una cronaca spietata mostra il canale di diffusione delle notizie; sono sempre troppo poche le storie di normalità, che in realtà sono la maggior parte. Il colonialismo del pensiero è una forma di coercizione che non lascia scampo. Quando alla fine cerchiamo di ribellarci, ci scopriamo schizofrenici, con pensieri e opere in contraddizione.

La mia quotidianità si dipana tra una roccia e il mare che non vedo, ma sento come un elemento necessario nella costruzione delle mie immagini mentali. Il fruscio delle onde si propaga nelle stanze illuminate dal sole. Così, mi ritrovo a sognare un’immersione tra un banco di pesci e coralli, mentre mi addormento.

Un addio messo lì per caso

Le foglie nel parco danzano in sintonia con i giochi dei colori del sole. Una brezza leggera sale dall’umidità del terreno non ancora asciugato dal giorno. Cammino in torno come l’animale in gabbia reso docile dalla prigionia. Un sentiero segnato che noi tutti percorriamo per allenare i muscoli molli. Ci si sorride incrociandosi, ma senza vedersi veramente. Lo spruzzo della fontana fa un certo effetto, un suono rassicurante l’acqua in abbondanza. A macchie di colore, gruppetti o copie sparsi nel verde. Una mattinata di quasi bighellonare senza pensiero o testa. Il ponte di legno sempre rotto a ricordare lo screzio tra quiete e tempesta.

Da bambino, il senso della realtà sfuggiva, infrangendosi nella sensazione di inadeguatezza. Mi trovavo in un corpo che non corrispondeva a un’unità, ma si rifletteva in spicchi di specchi. Pian piano, mi abituai a pensare di non essere come gli altri, e un sentimento di vita si perdeva oltre il limitare della sera. Si garbugliava tra i rovi nascosti, suonando la propria canzone con i resti della luce. Guardando da lontano, osservavo lo scorrere degli eventi, spesso ignorando il loro senso. Anche oggi, il corpo ha ceduto, piegandosi nella morsa del dolore; senza un filo di voce, ho potuto solo scrivere.

Sento un bussare ostinato dalla parte destra del campo visivo. Una folata di increspature e lampi rompono il telo apparentemente solido della realtà. In fondo, l’ho sempre saputo: tutto appoggia su uno sfondo friabile. È un’illusione la concretezza dei principi primi. La sopravvivenza di una certa spiegazione piuttosto che di un’altra è un gioco con Dio. Ci troviamo sempre di fronte a una svolta, anzi, la svolta è la vita stessa. Senza l’andamento sincopato del tempo, non ci accorgeremmo di vivere. Ora che cammino nel parco, tengo fermo l’immagine nel respiro. Contando all’indietro, attenuo il pregiudizio di ciò che mi appare.

Il gesto che accompagna il parlare diventa esso stesso un modo di comunicazione. Il guardare si è trasformato nella chiave per interpretare ciò che viene detto. Siamo diventati schermi di una TV, trasmettendo immagini seriali e stereotipate. Seduto al bar, osservo certo l’attenzione del barman, mentre sento la pesantezza di essere vissuto, da cui sembra impossibile fuggire. Anche un cappuccino con brioche diventa un miraggio e, una volta che arriva, sembra già stato consumato dagli spettatori di questa serie che è il mio rimuginare.

Un addio messo lì per caso, e poi quattro passi indietro per sparire nell’alveo dell’evanescenza. Un sogno, la dimenticanza, trattata come un alimento dozzinale. Ora cerco di tirare insieme un certo tipo di discorso, mentre, distratto, seguo le note per pianoforte. Nel momento stesso in cui accade, non è più, ed allora dove posso cercarmi? Il linguaggio è forse il meno adatto ad adattarsi alla vita, ma di fatto ci tiene per il collo, prigionieri di simboli privi di senso. Ascoltando Sokolov, capisco che forse è l’armonia dei suoni il linguaggio più appropriato per la biologia della vita.

Ritornando sui miei passi, ripescando dal fondo della memoria, le storie che sono scivolate nei cassetti riemergono. Spuntano da un arredamento semi-chiuso e asimmetrico, frammenti di una corsa che ora non potrei più affrontare. E… non sono neppure sicuro che sia andata proprio così. Così funziona la temporalità: lascia andare e poi riafferra, per garantire che l’identità rimanga salda. Difatti, sarebbe un guaio il contrario; si rischierebbe di diventare matti e di mettere in dubbio ciò che realmente siamo. Alcuni saggi o matti—che, in fin dei conti, è un po’ la stessa cosa—hanno cercato di sottolineare l’inutilità di un nome proprio. Tuttavia, come al solito, le cose bizzarre non giungono mai a buon fine. Meglio un Dio onnipotente che il nulla.

Sono ancora accanto a te.

Qualcosa accade lentamente mentre, da dietro le tende, un’ombra scivola nel passato. Sguardi che passano insieme alle stagioni, celebrate da canti dimenticati. Questo giorno, come tutti gli altri, è importante in questa vita. Sono ancora accanto a te, silenzioso e quieto. Lascio che le passioni passino come vento tra i capelli e fermo la malinconia tra le rughe del tempo. Ritrovo, in questa armonia, i suoni che da sempre incantano, vibrando tra le stanze di casa, come ospiti graditi. È il segno di un sodalizio scritto nel sogno che da sempre custodisce la verità.

Le giornate distese sulla via che dal lavoro porta a casa sono un intreccio di parole. Il racconto che si snoda può risultare frammentato, poiché l’attenzione durante il viaggio è a tratti. In certi momenti riesco a ripercorrere alcuni frammenti, ma mi perdo, o forse m’addormento, colto da una stasi senza tempo. Lascio perdere per osservare il mondo che avanza, verso dove non lo so. Di certo, anche la direzione delle stagioni è una fede. Come tutto il resto, si crede per non lasciarsi travolgere dal vuoto che niente restituisce.

Trame intessute dalla stanchezza del vivere, depositate malate nei sobborghi dell’animazione. Ci si trova un po’ così, stremati dalle innumerevoli cose da fare, in un binario morto, senza più vento in poppa. A parlare con il vento e la pioggia, che, a differenza degli uomini, sono soliti rispondere. Vorrei un posto fuori da questa città che ormai è una tortura di rumori innaturali. Ma nulla ti libera dalla tua stessa prigionia. Le tele che coprono i muri delle chiese sono una preghiera per non essere ciò che siamo. È buffo, perché ci è così difficile fare la cosa giusta?

Scorticato per un ruzzolare dentro a un discorso contorto, cerco una via d’uscita. Sono giorni che davanti a me compaiono forme di dissenso. È un sentimento di colpa che opprime, scolorando il giorno in una scialba luce grigia. Tra le forme della dialettica, il soggetto appare in modo prepotente. E forse questo è il problema del comprendere. Non so quale sia il punto in una storia. “Guardo o lascio guardare, o guardati”. Riprendo da capo il filo, ma le cose, nel frattempo, sono cambiate. Un richiamo da oltre la porta altera la scena, risucchiando il poco che rimane di un’individualità.

Il desiderio piano infila le pantofole per radicarsi nei corridoi alla ricerca dell’introvabile. Sono così che le cose funzionano, spinti da un impulso, si va e basta. Le strisce sul soffitto lasciate dal passaggio della luce dalle feritoie. Incantano lo sguardo verso un oltre che non appare al primo sguardo, ma fissando si scorge. Un altro mondo che a tratti fa perdere il senno confondendosi con il sogno. Fermo in queste ore lascio che il tempo sfiori la superficie, senza entrare nella necessità nel rincorrere il futuro. Anche i rumori sono attutiti dal feltro della lentezza. Una tecnica meditativa per starsene un po’ in pace senza ricordare il proprio nome.

Le parole che spingono: ogni cosa si muove nel fiume della temporalità, senza badare alle differenze. Sembra che, trascinate dalla corrente, perdano la possibilità di esprimere la libertà. Ma in fondo il significato di questi termini era già stabilito. Cosa posso sapere realmente dei loro significati? Persuaso che perderò l’equilibrio, non mi resta che galleggiare.

In alto, il cielo sovrasta ogni cosa, compreso il mio sguardo, che non fa più ritorno. Oscillanti in cerca d’amore, percorriamo le vie che ci sono concesse. Altre vie non possono essere viste perché le parole non hanno ancora segnato il terreno. Una stanchezza avvolge lo sforzo di comprendere, lasciandomi fuori dalla porta. Potrei bussare, ma a quale scopo se niente riesce ad articolare delle risposte?

In un certo senso, sono deluso che le relazioni siano così complesse. Aggrovigliate in tante piccole individualità, si perdono nel proprio intorno solipsistico. Un incontro ha bisogno di essere disarmato per funzionare. Nella luce si muovono le ombre, diventando protagoniste delle sfumature d’umore. Ci si lascia cullare nel grembo delle vie e delle piazze antiche.

Viaggiando nell’epoca più consona, si scoprono le vite pregresse. È un segreto dell’infinito, il tempo.

Celato nell’abisso, il cuore impavido è buttato fuori, privo di membra. Percorre spazi senza sponde nell’incontro con i simili. Penso a te mentre infuria una bufera di sillogismi, e dal palco l’accordatore rimette i tasti al loro posto. I suoni coordinati portano pace e zittiscono il chiacchiericcio, mentre fuori la guerra è già iniziata. Il pianista, da dentro le proprie mura, si esibisce. E… un silenzioso pianto riempie l’aria con la musica. Trovo faticoso mantenere un contegno in questa selva di convenevoli; c’è stato un momento in cui gli umani non avevano bisogno di nulla per capirsi.

Il consumatore esistenziale

Come mettersi nei panni altrui? Come conoscere il mondo esistenziale dell’altro?

Utilizzando l’analitica esistenziale di Heidegger, o meglio il suo linguaggio per descrivere il mondo, proviamo a entrare nella realtà di un consumatore di sostanze da cui è dipendente. L’“essere-nel-mondo” indica uno stato in cui si è sempre già immersi nella realtà delle cose, e il sentire emotivo rappresenta il modo in cui la percezione apprende ad utilizzare gli oggetti a disposizione, nella loro potenzialità.

La variabilità di senso con cui investiamo gli enti consente un’ampia discriminazione nell’interpretazione delle situazioni; in base a questo, possiamo ricavarne più o meno beneficio in termini di utilizzabilità per il benessere. Pertanto, la cura nell’esserci ci consente di trarre dall’utilizzo delle cose il significato riguardo a come spendiamo la nostra temporalità nel corso di passato, presente e futuro.

Sono le giovani generazioni messe in condizione di consapevolezza dell’esserci sufficienti a svelare le proprie potenzialità esistenziali? La risposta sembra negativa, poiché gli oggetti e gli enti prevalgono sull’essere-nel-mondo. Lo strumento tecnico, concepito originariamente come ausilio, è diventato un’esistenza dalla quale si dipende per la propria sopravvivenza.

Così accade anche per il consumatore: una volta sviluppata una dipendenza dall’oggetto, questo assume il ruolo di unica fonte di senso nel proprio sistema identitario, restringendo l’orizzonte dell’essere-nel-mondo a ogni altro possibile significato.

Questa è la situazione che ci troviamo ad affrontare rispetto ai giovani consumatori, i quali, nella maggior parte dei casi, sono privi degli strumenti conoscitivi necessari per elaborare un pensiero alternativo. In estrema sintesi, l’orizzonte della presunta soddisfazione dei bisogni è completamente assorbito dall’oggetto da cui dipendono, diventando l’unico orizzonte del proprio mondo.

In questa condizione, quale relazione può modificare uno stato esistenziale disfunzionale? La risposta che emerge spontanea è che non è offrendo oggetti alternativi che si interrompe il comportamento dipendente. Perfino approcci strumentali come la somministrazione farmacologica o le tecniche dialogiche sembrano destinati al fallimento, poiché non agiscono sull’esistenzialità della situazione dell’essere-nel-mondo.

Solo un’esperienza di torsione nell’investimento del senso dell’essere-nel-mondo può spostare la visione degli esistenziali e cambiare l’assetto della fruibilità delle cose a disposizione dell’esserci, per abitare la propria realtà.

Se il cambiamento di senso per una persona dipendente dall’oggetto non consiste nell’offrire ulteriori oggettualità, né in proposte di cambiamento o nella somministrazione di farmaci, allora l’unica risorsa rimasta è quella di stare accanto a queste persone, attraverso un accompagnamento mirato a mostrare un altro orizzonte possibile. Perciò, il modo in cui si sta accanto e il luogo in cui avviene l’incontro diventano elementi essenziali di questo processo trasformativo.

Il gusto del giorno

Confuso! Nell’ombra che si distende dalla luce incombente, guardo intorno a me gli oggetti senza connotarli. È un tentativo di concedere libertà alla relazione necessaria con ciò che ci circonda. Già in questo continuo alternarsi di dentro e fuori definisco un limite che mi dispiace; e in questo sento un senso di sconforto e di continua prigionia. Un dolore sordo accompagna da sempre ogni presa di posizione nell’agire tra le cose. Me ne vado da me stesso nella forma evanescente di un pensiero, colorato dal cielo e dal mare che si estendono in un infinito girotondo che chiamiamo casa.

Persone smarrite cercano rassicurazioni senza ascoltarle, prigioniere di uno stato d’animo che nasconde la realtà. Ciò che serve nella sobrietà del vivere non viene preso in considerazione; la pochezza o il minimo necessario hanno assunto un’accezione negativa. La riflessione in punta di piedi, senza sforzo e che si lascia calare in profondità, è elusa dal chiacchiericcio impersonale dei mezzi di comunicazione. Quindi? Dove andare? Quale spazio aprire per non essere travolti dalla cosificazione? I non-luoghi possono diventare rifugi per viandanti ancora umani, dove la decolonizzazione dalla verità riapre le porte al pensiero possibile.

Certo! Le illusioni sfuggono oltre la coltre dell’orizzonte, ormai abitualmente infiammato di rosso. Un presagio incombente per i vedenti non distratti, ma vigili ai cambiamenti. Cerco, in qualche misura, di rifugiarmi nella pigrizia, limitando i miei movimenti. Tuttavia, la forza di gravità, alla fine, ti costringe all’esibizione. Fili invisibili muovono i matti nel loro delirio; gli stessi fili tessono relazioni indispensabili per tutti noi, interconnessioni mai adeguatamente apprezzate, che sanciscono l’inestricabile verità che tutto converge intorno a un’unica essenza. Così, per gli amanti del solipsismo, questa rappresenta una frustrazione insostenibile, del tutto ignorata.

Nelle cornici cerco di intravedere la congiunzione tra uno e l’altro, interrogandomi se esista un terzo elemento che unisca. Le domande, sempre le stesse e totalizzanti, possono impegnare un’intera vita senza trovare risposta. A volte mi sembra banale, ma è impossibile fermare il pensiero interrogante; come un martello picchia sullo stesso chiodo fino allo sfinimento. Non capisco, infine, se sia più rassicurante porsi domande o darsi risposte.

La domenica in città ha un movimento diverso dal solito; c’è meno rumore e questo cambia parecchio il gusto del giorno. Anche fare nulla non provoca disagio in una domenica di sole.

La quiete si conclude nel finire delle buone intenzioni quando, da qualche parte, qualcuno chiama. Sono richieste insensate, frutto di una distorsione del senso d’essere nel mondo. La schiavitù del “dover corrispondere” consuma, poco a poco, la visione aperta, riducendola a un lumicino obbligato. I giorni che si susseguono perdono la loro carica e l’opacità può avere il sopravvento. Non resta che ribellarsi all’insensatezza.

Tra i ricordi, una vena di euforia: quando le cose possedevano la qualità della possibilità. Un gioco magico della fantasia trasforma il modo di pensare il mondo. Resto solo in questo, che sembra un ritirarsi dal vento, il quale insegue le sbavature del sovrabbondare. Una musica, depositata nella carne fin dall’infanzia, rimane fedele al proprio scopo. Tra spazio e corpo si delinea una trama nascosta in cui il senso emotivo del vivere si deposita. Una forma reticolare, amalgamata dal sentimento e dalla spiegazione razionale di “ciò che sembra”.

Questo è lo spazio-tempo che in ogni momento ti segue, in qualunque direzione volga l’attenzione. Sento le formiche che si danno da fare, il sole sollecita la frenetica attività nel prendersi cura del loro mondo. In marcia, solcano il pavimento verso la meta, mentre il mio sguardo resta incantato su un altrove a me velato.

Pasqua

Il sapore delle foglie risale lungo la cresta incolta dove, da piccolo, mi lasciavo cadere come un sasso rotolante. Sotto la sferza di un cielo che dava vertigini, la terra sembrava capovolta. In quel tempo, il reale e l’immaginario non avevano un confine delimitato. Ma tutto era… e, forse, è ancora verosimile; di fatto, anche se sopiti, i dialoghi con il nulla continuano a impegnarmi.

Dal ruscello in piena trapela una voglia di estate, ma attualmente la cattiveria riduce ciò a paura per il futuro. L’insieme forma un sussurro paesaggistico incorniciato dalla miopia, che con l’età avanza, stancandosi del vivido presente. Ci siamo un po’ persi aspettandoci che qualcosa di miracoloso avvenga. Ma, senza occhi per guardare, come è possibile accorgersi dell’impossibile?

Tra le righe vedo bianco, e nel colore percepisco una nullificazione della parola. Molte mani hanno cercato di scrivere lungo il tratto bianco, ma, incautamente, si sono perse. Ora che sento il brusio nella testa, il mondo esterno diventa un dato confuso, che può essere, ma anche no! Corridoi, stanze dalle porte chiuse: immagino finestre che estendono la visuale, forse su cortili, oppure su strade trafficate, ma al momento niente mi è possibile guardare.

Perso lungo una strada in un autobus straniero, costeggio boschi imponenti. Un ritorno a casa che si fa avventura, come quando i bambini guardano oltre le cose. A tratti, il sole illumina un abbozzo di primavera, per poi ritirarselo via. Questa corsa rievoca lontananze, lanterne fioche disseminate lungo la via, segnali per viandanti persi nel respiro meditativo. Le mutevoli ossessioni, a poco a poco, si affievoliscono in ricordi abbandonati sul selciato, troppo pesanti per essere portati. Con l’attenzione, torno al bus, che ora avanza verso le vallate fendendo gallerie.

Le lingue si mescolano nella cacofonia dei suoni, rimbalzando tra gli ambienti e il trascorrere della strada, dopo dodici ore di viaggio. Anche la mescolanza degli odori – tra cibo scartato e sudore – identifica provenienza e status. Parole leggere si intrecciano per alleviare la stanchezza, mentre guardo verso l’arrivo. Incontro il mio cielo particolare, con nuvole significative annotate dall’ebrezza fantasiosa. Oggi che non piove, l’aria resterà pulita prima di ingrigirsi. Rimango al mio posto, senza un lamento, osservando dal finestrino la pianura padana, che non sembra essere scossa dagli eventi sentimentali delle masse che, spostandosi, creano a volte disastri. In controluce, mi pare di scorgere una natura pronta ad agire.

Sono pronto per una riflessione che, con tenacia, mantiene unito il mondo inventato dai filosofi. Senza costrutto non rimane nulla che sorregga il senso della carne, divisa da ciò che la circonda. Sono rimasti per strada coriandoli ormai orfani dalla festa, mentre alle porte si annunciano altre ricorrenze. In questo susseguirsi, qualcosa si inceppa; non torna il senso della successione, apparendo il tutto come un sempiterno presente.

Mi pare un tentativo di stare dentro alla secolarizzazione del pensiero, mentre la scienza ci ha già portato in un altro universo. Si cerca invano di fare finta di niente, ma intorno il paesaggio è cambiato. Le cose sfumano lentamente in altro, emergendo dal fondo nullificato dalla cecità umana. Nella ripetizione delle ricorrenze, per esempio oggi è Pasqua, tra nuvole, pioggia e sole.

La conversione verso la fede rallenta l’ineluttabile e trasforma il sapiens in guerriero, come se nella fede di un bagno di sangue potesse sorgere una visione più nitida del mondo. È così che vanno le cose? Morire per rinascere? Soffrire per poi essere contenti? Disumani per poi umanizzarsi? Le parole che si formano sono oggetti o significati? La Terra è un riflesso oppure qualcosa di concreto?

Tra un augurio e una buona giornata, tra le sinuosità dell’intimità, cerco gli amori della vita.