Oggi, come ieri, attraverso la luce vedo le cose per come sono. Un albero spoglio, con ancora i cachi appesi. Il suono delle foglie che non ci sono più. Il giorno volge verso il suo finire. Rimango tra gli oggetti sparsi un po’ ovunque, forse cercando di tirare tardi, forse perché, smarrito il senso, resto affascinato dalle cose. Non so bene cosa senta, ma tra le parole colgo un inganno: “un non so che di scontato”. Da fuori le mura si apre una vastità. Vorrei prendere la rincorsa e lanciarmi, ma non so correre. Ho perso alcune facoltà mentre mi trovavo pensante.
Guardando indietro nella linea temporale, le vicissitudini accadute sembrano un soffio di vento: scampoli scritti o residenti in memorie ancora vive. Presto, una forma d’oblio attualizzerà il presente, non risparmiando intere generazioni dall’abbandono in terre poste nell’altrove. Il respirare, come sempre, riporta in vita e in presenza. Con esso, anche l’angoscia si accosta, ormai come una compagna fedele. Cerco di abituarmi a questo sentire ruvido del vivere e, con questo, cerco anche di riposizionare il mio corpo in qualcosa che possa funzionare. Una forma di adattamento che trascini la passione per ambienti interessanti e per discussioni colorate dalla fantasia dei sogni.
Una coperta tirata fino al mento, per spremerne ogni possibilità di calore. Un bisogno disperato di non sentire il gelo, che da dentro si è insediato in una velata intenzione di possesso. Le mura che cingono la città della mia testa sono invenzioni ereditate da generazioni. Questo è solo il primo mattino in cui lo sforzo per incontrare il resto risulta notevole. Da dove cominciare, allora? I segni nell’aria si fanno odori, poi si sciolgono come la brina al pallido sole che sfiora, con un tocco leggero, le estremità della terra. Guardando in alto, sembra di scorgere un sorriso di Dio. Ho paura! Il presagio di una qualsiasi fine incombe. A stento cerco di liberarmi nelle consuetudini, ripetendo il giorno qualunque. Stati d’animo si alternano, trascendendo tra il visibile e l’invisibile. Richiami flebili si fanno sentire, come un sussurro lontano, mentre ci si perde in un unico pensiero pessimista. La costruzione di un pensiero avviene lentamente, per gradi, in cui assonanze si attraggono come la rima. Sembra libera la semantica, ma le regole guidano le parole con i loro significati. Alla fine, il pensato richiude il cerchio di quella giornata particolare, nel sentimento negativo che già all’inizio ha colorato il giorno.
Nel rifugio, stretti tra i gomiti e le gambe piegate, prevale l’attesa. È un momento di stasi, un respiro trattenuto mentre la bufera sfiora i destini. A volte accade che, sospesi nell’ansia, il mondo possa finire. Nella palude della scrittura, i caratteri si confondono con il fango ancora fresco. In attesa, scrivo mentalmente sulle increspature del muro rinforzato con ferro e cemento. Tuoni in lontananza esplodono, affondando le mani nel dominio umano. È una lenta distruzione della cultura conservativa. La sirena squarcia il silenzio del brusio con un eco assordante. Spifferi di freddo gelido della paura si insinuano tra le coperte per instaurarsi permanentemente. Fuori, i combattenti stanno nelle trincee scavate prima nelle idee e poi nella terra. In tanti muoiono senza che possano darsi una ragione. In tanti rivedono nei solchi lasciati dagli anfibi i giochi d’infanzia e i primi amori. La solitudine, calata sulle relazioni, ha segnato i percorsi. Non si parla più per comunicare o per sentirsi, ma per forza di cose, non conoscendo un altro modo. Infatti, i significati dei discorsi appaiono vuoti e insensati ai più. Le cose, per inerzia, hanno ripreso valore. Possedere per mostrare è il nuovo modo prevalente di parlare, per cui le strade sono i nuovi teatri dell’assurdo.