Un vagito tra le cose finite

Ci ritroviamo nell’insieme delle nostre ambizioni, in questo teatro che a volte si fa quinta o privè, lontano da sguardi indiscreti. Solo i rumori degli eccessi giungono nella sala. Tra spettacolo dichiarato e intuito si muove la coscienza, cercando nelle definizioni un proprio statuto d’esistere. Ci sono anch’io tra coloro che, guardando lo spettacolo, intravedono il proprio essere senza l’inutile corazza che veste il corpo. Nelle file, un brusio si ordina in uno slogan coordinato, una ribellione tra chi guarda e il guardato. In un attimo, le membra sono dilaniate da un unico attore, un suicidio pensato come un omicidio per un rancore mai rimosso.

Le maschere accompagnano ogni spettatore al posto assegnato. Una rivisitazione della Divina Commedia rimette Dante alla regia del mondo. Non che sia cambiato poi molto da allora: vecchie dispute, nuove dispute sopra tavoli di design diversi. Di fatto, la recita può continuare, e i gironi intersecarsi in parallelo nella visione digitale della scena. Rivolti verso il proscenio, come nell’antica caverna platonica, ci nutriamo delle emozioni altrui, discenti allattati e sfamati con illusionismo e numeri di magia. Alla tavola così imbandita, i conviviali appartengono al ceto ricco. Per i poveri non c’è teatro, ma la vanga su cui piegare la schiena e il sentimento.

Scavo intorno alle zolle lasciate dagli animali sotterranei, in cerca del tesoro costituito dai sussurri degli abitatori del sottosuolo. Suoni di senso nutrizionale per lo spirito, ormai dilaniato in superficie dall’eccessiva esposizione alla luce. In questo clima, le nubi della speranza si sono diradate in una nebbia soffusa, velando la possibilità di una rigida constatazione in ciò che è stabile davanti agli occhi. Sono tempi per l’Occidente in cui, perduta la strada di casa, si saccheggiano le abitazioni altrui, in un’alternanza di lingue parlate e scritte che alla fine produce un ibrido conflittuale.

Da fuori contesto, il paesaggio può appartenere a qualsiasi mondo. Le dune sfocate dal riverbero rosa e azzurrognolo, con cespugli color porpora disseminati qua e là. Un incanto per incantare il sentimento, sempre più perso nella congiura tra bene e male. Ho cercato con le mani di affondare nel fango umido della ragione, come si fa con le storie appassionanti che ti lasciano con le lacrime trattenute in uno spasimo allo stomaco. Così mi ritrovo a cercare nei volti che incontro una forma d’appartenenza, affamato d’identità in questa landa di ideali cadaverici, con la speranza che un germoglio o un vagito risuoni tra le cose finite.

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