Tacendo mi regalo una tregua

Nell’immediatezza ho colto l’ombra fugace che, da dentro a fuori, increspa l’attenzione in un sussulto dell’animo. Frastornato dalle innumerevoli possibilità metafisiche, lascio cadere il corpo nell’ansa di un ricovero per vecchi. Una vita sprecata nel cogliere l’al di là, senza curarsi della cecità dell’al di qua. Tornando verso casa, le nuvole che si vedono appena tra i tetti testimoniano che la natura c’è ancora, oltre alla gabbia di mattoni. Il silenzio che incontra il buio mi è di conforto. Preferisco muovermi a tentoni piuttosto che esplodere alla luce artificiale dei riflettori. E tacendo, mi regalo una tregua nell’invadente mondo della parola.

Quanti sono i viandanti che spostano la polvere tra i bivacchi notturni? Brusii e convivialità negli spostamenti depositano testimonianze lungo la storia. Un flusso continuo e inconscio di cui l’umanità si nutre. Una compenetrazione dalla strada che segna il passo alla parola scritta. Di fatto, è il nutrimento degli stanziali, che, ancorati ai luoghi, perlustrano l’intorno prossimo. Una certa visione prevale quando il mare beccheggia e si insinua nella cresta asciutta: un’invasione che, prima di ritirarsi, lascia il segno del rinnovamento. Il viaggio incrociato dei popoli rimane, a volte, l’unica speranza per cambiare idee marcite in stagni malsani.

In fondo, è un’abitudine pensare che il pensiero sia confinato nella testa. È una forma metaforica della realtà che ci pone alla guida del corpo dall’alto verso il basso. Sarebbe ugualmente valido pensare al pensiero nei piedi o nelle ginocchia? La realtà muterebbe? O resterebbe invariata? Credo che un buon allenamento debba comprendere il cambio di prospettiva. Dopotutto, abbiamo anche la tecnologia per poterlo fare. Insegnare, attraverso la realtà aumentata o virtuale, a vivere situazioni non abituali.

Un deragliamento umanitario è in atto, come se l’essere umano volesse chiudere il conto con se stesso. All’orizzonte c’è la fine, oppure è la genesi di una nuova riformulazione dell’essere? Sono solo giochi d’immaginazione, un modo per generare l’effetto dell’imprevisto. Da una parte, l’abitudine ci aiuta a risparmiare energia; dall’altra, però, ci ingabbia nella consuetudine stessa. Sono capricci di un vivere ancorato alle certezze, che in un attimo possono essere spazzate via.

Camminando nel parco in tondo, con lo sguardo posato a poca distanza dai passi, sento un ansimare provenire da un me come un doppio, il quale a sua volta ansima guardando appena oltre il proprio passo. Mi chiedo divertito: “Ma quanti siamo a camminare?” Nessuna risposta! Ma un eco di risolini m’inquieta, e così smetto di fare domande.

Da sempre, la molteplicità ci compone come un Lego inconscio: angoli, sfumature, rimossi, rigenerazioni. È un insieme che attrae e respinge in una danza perpetua di vita in vita, da identità a identità, da genere a genere. Una forsennata ricerca dell’uno indivisibile che, inesorabilmente, porta a nuove molteplicità. Tornando all’intimità del dialogo interno, mi rendo conto che non è altro che il senso stesso della molteplicità della natura: la comunicazione delle parti che si costruisce in un totem di senso comune.

Dentro al mito, alla fine, si può trovare requiem a questo continuo interrogare. A cosa è servito uccidere gli dèi, se poi le ferite dell’animo frantumato non sono state sanate? Perso per sempre l’antidoto con il libero arbitrio, la paura ha solcato i margini ed è calata nelle banalità del quotidiano. Ora, mentre mi guardo intorno, vedo il velo dell’innocenza perso per sempre. Le compagnie di ragazzi sono diventate bande; l’altro, da compagna, è diventato preda.

Per restare sani, bisogna fare uno sforzo: guardando, ma soprattutto sentendo il sottosuolo ancora vivo; pulsare nell’inconscio con la voce degli antenati. È il suono della Terra che custodisce la memoria della luce proveniente dalle stelle.

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