Attorno ronzano come vespe le idee, sospinte dal vuoto verso qualcosa. Oh! Forse è solo un mal di testa o qualche altra calamità che si abbatte su un corpo al crepuscolo. Nella torre di controllo, il vento è registrato come semantica. E… sopra si disegna il racconto che appare insieme alla visione. Anche per un cieco, la visione si accende dall’interno, nel susseguirsi degli eventi. Il vedere si combina con l’idea che abbiamo di noi e del tutto. È un po’ limitata, ma al momento è la principale, prevalendo su altre. Potremmo essere solo occhi enormi, che muovono con le ciglia i comandi di complessi elaboratori elettronici. Strani esseri, figli dei fotoni, che hanno impastato il proprio universo con il colore. Testa di telecamera o vizio del proiettore, abbuffate di selfie. Metafora su metafora, da teoria in teoria si gira intorno al vedere come punto di snodo. Paradigma per una qualsiasi piramide dal costrutto teorico. La cadenza improvvisata risuona prima nella luce che nel suono. Così, l’arte tutta fa vedere prima di ogni altra cosa. Un velo di stanchezza ricopre le tende opache del giorno, in un invito a un po’ di silenzio.
La tregua che, in qualche modo, ci è stata donata dalla bellicosa natura degli esseri umani sembra avviarsi alla sua conclusione, alimentata dalla brama di una nuova battaglia in puro stile carneficina. Lo scontento si dirige verso una via distruttiva, senza contemplare la possibilità opposta. Se il pensiero ha il suo limite nella parola, il corpo è vincolato dalla coscienza esterna, spesso eterodiretto dai flussi collettivi. Si tratta di una forma di inconsapevolezza dalla quale non si vuole tener conto. Trovo discutibile l’ordine delle scale, in cui si sale e si scende, poiché c’è una sensazione di superficialità riguardo agli accadimenti, come se nulla fosse realmente avvenuto.
Il quotidiano si inala dalle viscere attraverso piccole incombenze che si ripetono. Saluti si scambiano nel casuale incrociarsi, senza mai veramente conoscersi. Si tratta di una forma di conoscenza, che manca anche verso il proprio senso del vivere. “Buongiorno!” è un saluto lanciato al volo verso un “ciao” di ritorno, e tutto si chiude tra uno spostamento d’aria e una leggera sensazione di nudità. I giorni, sempre in perfetto ordine, non tradiscono la successione temporale. Ma sarebbe bello che il mercoledì prendesse il posto del lunedì, e che ogni tanto la domenica precedesse il sabato. Una brezza di cambiamento e un po’ di spaesamento, per rendere la realtà più fluida e meno scontata.
Forse Jambo è tornato dall’Africa, lasciandosi alle spalle il fumo delle auto e delle ciminiere dismesse dell’Europa degli anni Cinquanta. Un via vai di razze e popoli si incrocia negli snodi. Pochi sono i fortunati che possono permettersi di non avere fretta. I privilegi sono più evidenti dove c’è meno da mangiare. In ogni caso, Jambo in Italia sta bene. Ha la qualità di farsi amare e di non nuocere, per i vecchi del quartiere, quanto basta per essere un “begnamino” per quattro chiacchiere. Quanti Jambo ci sono nei vecchi quartieri? Ora in certe zone hanno superato in numero gli autoctoni, diventando indispensabili per la sopravvivenza delle attività. La mescolanza, oltre al conflitto, porta con sé il rafforzamento biologico, a cui seguirà il legame sociale. Lo scorrere degli eventi mi appare frastagliato da dimenticanze, opacità dovute alla ricostruzione e allo smottamento di una vita, da una lontana periferia di campagna onnicomprensiva della totalità del mondo, all’orlo dell’abisso tra lontananze e immensità, tra universo e distruzione di una razza litigiosa, già litigiosa in sé stessa nell’individualità.