“Le cure o la cura” è lo spazio che sempre compare davanti e ci permette di sopravvivere. Uno sguardo compassionevole può fare la differenza tra conflitto e pace. Dentro al tempo segnato dal destino, rassetto ciò che sembra fuori posto. Tuttavia, niente rimane uguale; per cui rincorro un ordine utopico che occupa la mia attenzione. Nascosta alla vista, la salamandra si sottrae agli esseri umani. Alcuni animali hanno buon senso e vivono più a lungo di altri.
Il mio è un piccolo mondo che si compie in uno spazio molto limitato, rispetto agli spazi aperti dai media e dai social. C’è una notevole sproporzione tra ciò che effettivamente si calpesta e ciò che fantasiosamente si crede di conoscere. La bolla in cui ognuno di noi si trova è invisibile anche a se stessa. L’illusione è nel “credere che” si sia sempre in un luogo diverso da quello che è. Da piccoli, prima di iniziare l’addestramento intensivo, c’è una maggiore consapevolezza del posto che si occupa. La manipolazione di ciò che ci circonda è molto attiva e soddisfacente, sempre che ci siano le condizioni per razzolare liberamente nello spazio intorno.
Alcune banalità risuonano in modo assordante nel clima inverso a quello che uno si aspetta. Ma, il ciarlare a volte stimola l’indolenza a farsi da parte.
Il quotidiano appena passato è il mio tempo, da cui cerco di elaborare l’idea. È come lavorare in differita o assistere a un ritardo in un doppiaggio filmato: un passante che, strutturalmente, è sempre già da un’altra parte. Ponti fantasma si ergono dalla visuale supina che ho del mondo. È un fine accattonaggio dei sussurri appena velati dei segreti intimi delle stanze chiuse. Le storie di seconda mano si costruiscono da sole, come una forma elegante di pettegolezzo o semplicemente una rappresentazione della miseria umana, annichilita dal ripetersi continuo della cronaca.
Leggo i giornali ogni mattina per non perdermi una rassegna di polemiche inutili, per approdare nella quiete della cultura o della letteratura, che della disputa ne fa un’arte. L’indecisione ci rende riluttanti all’azione. Tuttavia, dalla postazione in cui mi trovo a operare, l’ascolto grava sulle mie corde come un eccesso. Nei miei piani era previsto un ritiro, ma questo è svanito nella contingenza di una quotidianità depauperata. Ci ritroviamo, come eco, “nell’eterno ritorno”, increduli che possano ripetersi i flati emotivi. Però, alla fine, il già visto si presenta con tale sfrontatezza che è impossibile ignorarlo: la semplicità di questa storia che cerco di raccontare, che è persa nel frastuono di cose molto più altisonanti.
È la semplice pratica meditativa quotidiana: “un nonnulla nei flati umani”. L’intercettazione delle piccole oscillazioni dei sensi è trascurata dai più. Tutto è centrato sulle grandi costellazioni di risultati, che alla fine creano un popolo frustrato. Dove sono le vecchie sollecitazioni della vicinanza? E le intimità che, per una pace con se stessi, sono i luoghi privilegiati? Nel mio lavoro di ascolto, uno degli aspetti che mi lasciano incredulo è il constatare che le persone non hanno familiarità con i loro corpi e, men che meno, con le istanze che li animano.
Sembra che la scissione sia la caratteristica umana prevalente. Forse è proprio questo il nodo da cui tutto prende avvio: un’eterna scissione che ci porta a problematizzare le possibili evoluzioni future. Senza la costante possibilità di porre domande per elaborare soluzioni, verrebbe a mancare il senso stesso dell’esistenza umana. Una effimera chimera ci induce a sentirci superiori rispetto ad altre forme di vita e non. Ricordo incontri con gli insetti in cui sorge spontaneo un dubbio atavico. Non è ribrezzo la reazione istantanea, ma piuttosto la paura nei confronti di una superiorità di genere che, in fondo, avvertiamo come loro appartenenza.