Appesa al gancio la narrazione

Vettovaglie sparse nel campo inumidito dalla pioggia. Le orme degli scarponi penetrano in profondità, una traccia nel terreno che segna il passaggio. I guerrieri moderni non hanno nulla di diverso dai loro antenati. Terra e sangue mischiata con il sudore della paura, più per il dolore che per la morte, in quanto quest’ultima diventa mito nella battaglia. Non c’è modo di togliere la violenza come condizione del comunicare. È inanellata saldamente nel senso della sintassi di ogni lingua parlata. Ed il linguaggio permette solo forme di addomesticamento al proprio limite. Intorno cadono le anime che ho incrociato fin dall’infanzia. Il lutto che da giovani appare distante si fa sempre più frequente nelle visite invecchiando. Cerco di elaborare l’intorno senza che mi appaia come minaccia. Ma: devo dire, che resta difficile lasciarsi andare nel firmamento dei significati. I vari mondi della conoscenza possono viaggiare anche senza incrociarsi. E, tutto rimane in piedi, perché ciò che permette l’esistere viene ancora prima dell’esistenza. L’odore del prato bagnato sale fino alle mie finestre. Deponendo una immagine esterna nel chiuso del riserbo, rompendo quel confine tra fuori e dentro che spesso si difende con fervore.

L’ora segnata dall’orologio appeso al gancio della narrazione è fioca come vapore nell’essenza della storia. Lo spazio si dilata, inghiottendo l’attenzione in una bolla di fantasia. I giorni che scorrono sono come corridori nel circuito dello stadio: sembra di poterli afferrare, ma in realtà passano inesorabilmente, e lo sguardo si abitua al passato, negandosi la presenza dei momenti vissuti. Chino tra le cose che nascono e il tetto che chiude il cielo, riposo come un soldato tradito da una guerra ingiusta. Passano le ere nel solco del ricordo, mentre la roccia lentamente racchiude ogni cosa.

Una voce sussurra: “Cammina verso il buio, all’angolo estremo dell’altro mondo”, in quella atmosfera rarefatta che divide la vita dalla morte. Al di fuori, schiamazzi e confusione sorgono dall’incedere della volontà di dare un nome alle forme. Una preghiera galleggia in questo mare, sospinta da una continua celebrazione della compassione. Ti cerco con lo sguardo; mi è difficile non averti sott’occhio. Il mondo potrebbe spezzarsi senza la complicità di una vita. Il lavoro, sempre troppo presente, è ormai diventato qualcos’altro. Questa sera, tra le persone, ho ritrovato un indizio: il mondo reale è tutt’altro da quello virtuale.

Sfocata è l’immagine del vero che sembra danzare davanti agli occhi. Ma la vista ormai è obnubilata dallo schermo che filtra il senso di ogni descrizione. “Ripigliati e non ascoltare più nessuno; solo il silenzio può restituirti al tuo corpo”. È un grido che già molti seguono nel sottosuolo della ribalta. Di fatto, il mondo che appare è una finzione per tutti coloro che sono di troppo, non essendoci posto per tutti nell’inconscio collettivo. Lo sterrato segnala con il suo fruscio il passo, tra un apice e il suo declivio, nella natura senza vincoli. È un’avventura esplorare tra le colline, assaporando gli odori e la possibilità di perdersi. Ramingo, giro in tondo, perdendo pezzi e racconti, visi e fisionomie che si dileguano come il fumo di un sigaro. Questo è il mio cercare un’unità in una storia che non può averne, con l’infanzia sullo sfondo mentre un uomo è già vecchio e poi perso in miraggi e illusioni. La tristezza di questo momento in cui si insiste tanto sulla brutalità passa in secondo piano rispetto alla gentilezza di un gesto, a un saluto non cercato, alla comprensione delle parole per come vengono pronunciate. C’è uno spazio per il “bene”, poco riconosciuto, ma esiste anche la possibilità di estromettere la bontà dai nostri cuori.

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