Danza sul filo di vento

Nella stanza, un alveare si confronta con la curiosità; differenti, ma uguali, si scrutano nella penombra. Da sempre le visioni dei vari animali si intrecciano e coesistono. Gli abitatori del linguaggio “descrivono”, mentre gli abitanti dell’atto “sono”. Al termine di questo giorno, probabilmente, le parole cesseranno. Un mondo privo di descrizione ridiventerà polvere, come nel Vecchio Testamento. I rumori che filtrano dalle finestre aperte sono insopportabili; il rullo di questa vita è asintotico rispetto a ogni tentativo di trasformazione.

Nelle vicinanze, l’alba si fa strada nel buio della stanza, mentre i naufraghi si ritrovano tra le mura domestiche. La memoria scivola via, e gli oggetti circostanti si tingono di estraneità. Ci si abbandona al silenzio che finalmente soppianta il rumore di fondo, segnalando il destino. La mia consuetudine di scrivere intrappola parole e fantasmi tra incertezza e fantasia. Una solitudine cala su di me come una bevanda sgradevole, impotente a cambiarne il sapore. C’è qualcosa intorno che non si percepisce con gli occhi, ma che troneggia nei punti ciechi della visione: una forma di inquietudine che increspa la vita in una spirale funesta.

La casa delle parole è alla periferia di tutte le strade possibili. Nel complesso abitativo dell’inumano prima che si trasformi in detto. La cifra dell’ingenuità è il ricorso alle continue costruzioni di cattedrali che poi serve abbattere. Nella incessante discontinuità si trova la forma amicale della sosta. In qualche bettola ad i margini del grande flusso. Si può fare battute di spirito nella calma di quando ci si ferma. E…tutto l’assurdo a cui si rincorre appare vano e inutile. Le idee possono essere espresse e contraddette senza che vi sia allarme. Nella casa delle parole abita l’essere che ancora non è. Restando in attesa che l’umano ne capisca l’essenza.

Spaventato e ansioso mi rimetto ad un senso d’attesa, gli oggetti quotidiani mi sembrano estranei. Non sempre il senso del controllo aiuta, anzi è proprio ciò che fa perdere la sicurezza. La magia della sospensione inconsapevole a volte non riesce e resto nel vano della cruda realtà. Il sole già alto ribolle tra le stanze e il corpo inizia una lenta insofferenza. Mi racconto la storia di questa città che da alcuni anni è diventata lo scenario di crimini un tempo solo letti. Una città che crescendo fatica a trovare una sua identità.

Una quadro descrive colori, odori e suoni fantasma nell’impressione immediata; solo in seguito, le forme prendono il sopravvento. Se l’attimo iniziale potesse durare, forse potremmo incontrare l’anima dell’artista. Mi sorprende lo smalto dei muri e le incrostazioni degli edifici abbandonati, in cui emergono da sempre forme che rappresentano la mia anima. L’insofferenza risale la china per le grida e le parole buttate via, mangiate, ingurgitate intere e sputate come nulla. Ormai si possono vedere ovunque carcasse di linguaggio lasciate in strada come liquami. Sento il mutismo avvolgermi e tramontare con esso nella radura dei silenti.

Giostrando di metafora in metafora, si può alla fine del giorno incontrare la notte. Nel buio, la quiete toglie gli oggetti da torno. Solo i suoni emergono come miasmi improvvisi. Finisce un mese dentro un anno che, per il mio corpo, appare incerto. È come una fermata ferroviaria sperduta nella campagna, in un momento in cui la stazione deserta rappresenta solo se stessa. Condizionato dall’essere solo, il dialogo interno si fa urgente. Alla fine, però, anche le cose dette tacciono e resta una sosta nel ventre della terra. La polvere si alza per il caldo e danza sul filo di vento fino a sparire.

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