Dattilografia

Me ne vado a zonzo, scivolando lungo un percorso che, in apparenza, è improvvisato. Salutoni graditi, accompagnati da sorrisi e piccoli inchini nella formalità dell’incontro. Che paese è questo? Aggrappato a una terra mescolata con il fango della conciatura. Tutto intorno sfuma verso il rosso, al punto da pensare di avere una malattia agli occhi. Sono sereno, respirando il poco ossigeno che ancora resiste nella mescola con l’aria. Va be’, è un giorno come un altro, tirando balle qua e là. Così mi dicono anche le persone che mi parlano oltre la scrivania. Resto lì, fermo e muto come un pesce che d’improvviso si accorge di non essere nell’acqua. Panico! Vie di fuga? Non mi ricordo più il corso sulla sicurezza, quale procedura impone. Che casino… Sono solo all’inizio della giornata e già è buio dentro di me. Un respiro dietro l’altro, con il diaframma, che non vorrei sentire, perché mi ricorda la pancia gonfia. Mi infastidisce la forma arrotondata che, invecchiando, si assume. Praticamente riserve di grasso che al momento risultano inutili, ma molto fastidiose nel cercare la combinazione decente con il vestiario.

Ti chiamo oltre la porta, nella certezza di trovarti sempre giovane, come la prima volta che ci siamo incrociati. Sento il peso di un tempo che per me, invece, è passato, scavando un significato che mi avvicina al nulla. Rileggo i saggi che sono stati importanti nell’aprire la stanza dei “balocchi”, così da passare giornate nei mondi del mezzo. Un ripasso immaginario lungo il passeggio che mi ha accompagnato nelle giornate storte.

Il suono della campagna è sempre stato un rapimento dell’animo, un perdersi e ritrovarsi con la propria genesi. La ferma voce di mia madre attraversa il passato ed irrompe nei sensi, annullando per un attimo la temporalità. Si è sempre in bilico tra il presente e qualcos’altro, in un continuo sfuggire all’attualità. I giardini, sempre più ristretti nel cemento, hanno assunto una colorazione scura, quasi una mutazione plastica in un’altra specie indefinita.

Non c’è dubbio che una trasformazione, alla fine, ci porterà in altre zone del pensiero. Oppure potrebbe essere la fine del pensiero. Solo fusione di vasi sanguigni, stomaci, costruzioni varie nell’impasto con anidride carbonica e ossigeno. Un mondo fuso nell’indistinto, senza oggetti o enti, ma un ribollire intenso di tutto con tutti. Il richiamo resta lontano, in un’area del tempo dove si deposita la storia.

Di fronte al mare, il vento spazza via quell’idea malsana di stare al centro del mondo. Le nubi corrono un po’ più veloci verso la dimora di cielo azzurro. Ci si chiede sempre come si sta, mentre nessuno vorrebbe veramente stare peggio dell’altro. Sono solo constatazioni di senso comune che vengono lasciate circolare ovunque ci sia chiacchiera. Nei bar lungo il litorale, ci si studia per scambiarsi due parole e portare a casa l’illusione della compagnia. La solitudine stritola il corpo nella morsa dell’insignificanza, mentre si brama in continuazione una qualsiasi approvazione.

Menti performate a rispondere in un dato modo, anche se l’aria che tira potrebbe essere contraria. Un distillato di coscienza meccanica che, una volta avviato, si nutre di movimento perpetuo. Prigionieri dentro costumi intonati al paesaggio, mentre da dentro si rabbuia ogni germoglio e la primavera svanisce. I numeri moltiplicano e sottraggono cose utili e inutili, senza una sostanziale differenza. Le coscienze non sono in grado di codificare cosa sia meglio, ma seguono il primo codice imbeccato per poi ripetere il programma. Dove sta la libertà in tutto ciò? In niente di rilevante, se non per una semplice negazione nel rispondere.

Lascia un commento