Guardarsi intorno nella stretta via, in cerca di un segnale per proseguire oltre, nel presagio che qualcun altro sia presente. Da lontano, il traffico arriva attutito nel centro della città vecchia. I segni della storia sono presenti ovunque, lasciando che la fantasia inganni il tempo, e per un attimo si possono ancora sentire gli zoccoli dei cavalli e i sgangherati carretti porta merce. Il dialetto volgare, impastato con il latino, sembra un mugugno intercalato da bestemmie; più che parole, sono sguardi e gesti a dominare gli incontri. Superato l’angolo, una muraglia di cemento color ghiaccio cancella ogni residuo della fantasticheria, sostituita da un motto sgarbato scritto con bombolette spray.
I partigiani rivivono negli sguardi di un popolo che, preso alla sprovvista, non ha più un senso da dare alla propria nazione. Situazioni che in apparenza avvengono improvvise lasciano sul selciato pozzanghere senza riflesso. Il corso di innumerevoli storie si interroga sul dove e sul come, mentre il sole va e viene con la luna. Oggi è tempo di canzoni che lasciano nell’aria un’armonia da raccogliere e tramandare. Un fischiettare leggero può diventare un rombo se condiviso, una marea che sale fino a raggiungere i cuori che per troppo tempo sono stati aridi.
Mi ricordo delle feste in cui, tra il vapore dell’acqua bollente e lo sfrigolio della griglia, risuonavano canzoni popolari e di anarchia. Un clima di fraternità e comunanza sorse attorno a un’idea condivisa del mondo, un “mondo” così soggetto a variazioni che, nella moltitudine delle visioni, svanisce nell’ombra scura del nulla. Tra i richiami a serrare i ranghi e la lunga attesa di una equità mai vista, i capelli ingrigiti e i lineamenti ingobbiti hanno segnato il passaggio di pagina. Altre parole, o forse le stesse, hanno assunto significati mutati, e non resta che passeggiare tra gli avanzi di spavaldi sparvieri che presto, nel riciclo, tramonteranno.
Una sorda coscienza non vuole arrendersi agli opposti che oscillano, riducendo la certezza di esserci. È come trovarsi in mezzo al mare e fare finta che il fluttuare della massa verde sia boscaglia. Mi rendo conto che ogni individuo, nel momento che vive, ha uno sguardo circostanziato dal presente. Una forma di miopia funzionale a non essere sopraffatti dalla complessità. Ora che il freddo fa incursioni nell’illusione di un anticipo di primavera, anche fisicamente ci si ritrae, cercando una tana che scaldi e sciolga il grumo della tristezza.
Da fuori si possono osservare figure che, muovendosi, alterano il colore delle stanze. L’intimità si rivela come una sfumatura dello spazio, che, inclinandosi, dà vita a una conca riservata. Mi trovo alle prese con un pensiero colloso che, espandendosi ai margini, non concede tregua all’uscita. Questo provoca un dolore alla testa e il cuore si increspa; un moto di rabbia minaccia di rovinare la giornata. Cerco di ricominciare evocando personaggi storici che, in successione, sembrano giungere fino al cortile di casa. Mi aspetta una colazione verso il porto, mentre lo sguardo viene catturato dal mare e si distacca dalla coscienza. Vorrei non tornare sulla terraferma, dove, inevitabilmente, si inciampa di nuovo sulla libertà.
Nel dileguarmi tra sorrisi e schiamazzi, dimentico una parte della mia personalità, appoggiata allo stipite. Mi rendo conto di poter sopravvivere anche senza nome e attribuzioni. È una novità, questo stato di trasparenza, in cui, né visti né sentiti, si passa semplicemente attraverso. Come il lago Aral, scomparso in un deserto tossico, che lascia la sua anima vagare insoddisfatta nei ricordi dei tempi passati. Devastazione è la volontà che le cose siano altro da sé; rovina è altresì il non volere affatto nulla. Il mortale, in quanto tale, non ha alternativa se non quella di far prosperare la propria rovina.