La notte della Repubblica

La notte della Repubblica risuona nella mia mente come un’epoca rischiosa, in cui, attraverso la nebbia padana, scorgevo i fantasmi dei miei nonni. Nulla è cambiato: il mondo si comporta sempre allo stesso modo e i volti possono sovrapporsi, perdendo contorni distintivi. In questo incedere, il calore della frizione tra i corpi nutre un tempo che può correre sempre più veloce. Di fatto, siamo strumenti nelle mani del destino, il quale, per continuare a scandire le proprie ore, ha bisogno di chi corre. Mi fermo qui a osservare quel poco di verde rimasto in città, chino sul davanzale di un porto.

I miei nonni raccontavano di quando traslocarono con un carretto trainato da un cavallo, un’immagine che risveglia in me ricordi di un’infanzia in cui era comune vedere grandi animali come mucche, tori e cavalli passeggiare per le strade. L’aria di quel tempo era decisamente diversa; ci si poteva immergere nell’azzurro del cielo senza la paura di svanire nel vuoto. Oggi, invece, il continuo trambusto del traffico e l’ansia quotidiana sembrano un po’ falsi, rendendo più difficile la riflessione e l’immersione nei colori del cielo che la modernità offre.

Possiedo ancora una vecchia fotografia dei miei nonni, ma è nei sogni che li ricordo in modo più vivido e nitido, con le emozioni ancora intatte.

Rivive il ricordo delle fitte e cupe trame di un tempo in cui tutto era avvolto nel senso di colpa. Come è possibile crescere in un’ampolla cattolica, dove il dritto e il rovescio si intrecciano simultaneamente? Sotto lo sguardo di Dio, si compiono azioni nefaste, solo per poi essere perdonati. Queste immagini infantili si materializzano davanti a me, prima che una nuvola colorata spazzi via tutta l’immondizia accumulata.

Occorre prestare attenzione a non essere risucchiati dai facili pregiudizi. L’incazzatura, come movimento globale del nostro tempo, non consente a nessuno di riflettere, ma genera un perenne stato di attesa armata. Solo in un bunker ben fornito è possibile permettere al corpo di rilassarsi. In ogni caso, sembra essere una faccenda da privilegiati. Per la massa, rimane l’incertezza tipica dello stato di sopravvivenza.

Il sole irrompe nel freddo con parole quiete, cercando di non attivare la paura o la ritrosia negli sguardi diretti verso la luce. Dalla strada giunge il suono strimpellante di una chitarra, non perfettamente accordata. Sono frammenti di questa giornata che, scorrendo, non potrà più ripetersi se non in brevi spezzoni nella memoria. La voce che percepisco è la mia, muta dentro la mia testa, in dissonanza con quella esterna, rauca e afona.

Il presente si innalza verso il giorno, piegando buone intenzioni in gesti che lentamente si spengono nella fiamma del camino. Oggi desidero che il mondo resti all’esterno di queste mura, scivolando via, inseguito dal fischio del vento che scosta la neve dalle vette. Oltre il cielo intravedo un’altra valle, che si estende per il tempo necessario a un sogno.

Cavalli galoppano, ispirati dal sussurro dell’aria, tra stelle e terra, in una prospettiva futura dove il suolo calpestato non possa mai scomparire.

Rimango sempre un po’ assorto o assente, come chiamato da qualche altra parte rispetto al presente.

Decisamente sbiadito, appaio nei confronti di una vita che invece possiede colori vividi. Seguo la melodia che perennemente risuona tra il fondo del cranio e l’inizio dell’occhio che osserva. L’arte si configura come l’ultima risorsa per cogliere il mondo nella sua totalità. Dietro le quinte si svela ciò che è nascosto ai più, mentre la scena è occupata dal dagherrotipo, che cattura influenze e istanti. Lo schiocco delle mani che applaudono conclude la cerimonia, in cui tutto rimane immutato: inevaso e solo.

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