Si cammina per la strada, consapevoli che ad ogni angolo un’ombra può presentarsi, cercando un contatto. La relazione tra umani e ombre non è facile; infatti, queste ultime vengono spesso ignorate, nonostante siano indispensabili nel dualismo di positivo e negativo, come unità. A lungo, uno sguardo furtivo si rivela necessario per assicurarsi che l’ombra sia al suo posto. Tuttavia, possiamo anche dare per scontato che, talvolta, essa scelga di rimanere per conto suo; e in questi momenti, la nostra distrazione riduce le certezze.
Comunque sia, questa parte meno illuminata, frutto della mancanza di luce dovuta alla sovrapposizione, è intrisa di poesia e significato, rappresentando sempre qualcosa di altro rispetto a sé. Quando compare l’ombra – o la nostra ombra – siamo pronti a guardare oltre il finito, verso una dimensione che si apre infinitamente nel fantastico creativo. Questa è una meditazione guidata dall’imbrunire delle cose, in un tempo dilatato dalla percezione sopita della realtà.
Ritornando per strada, il ricordo della tua voce risuona anche nell’ombra, evocando sentimenti che oscillano tra chiaro e scuro, a perpendicolo dalle facciate umanizzate dei palazzi. Mi tengo in serbo un pianto per quando la carestia colpirà anche la baldanza dell’Occidente.
Alla memoria risuona un motivetto contrappuntato, pieno di biscrome, saltellante come un grillo tra orecchio e occhio. Mi perdo nel tempo della musica, lasciando che l’angoscia molli gli ormeggi dai miei porti. La fatica pesa sulle spalle, mentre il vento sterza le opinioni altrui, che, come al solito, cercano fondamento.
Resto quieto, al di qua del mare. Dalle mie spalle, le montagne glabre testimoniano il cambiamento climatico, un’onda persistente nelle menti e nelle ossa di intere generazioni. Volano aquile, degne di un romanzo epico, sopra al fiume di parole sprecate, destinate ad incendiare i boschi. Sogno di accarezzare la tastiera di un pianoforte con tutti i tasti neri, con il suono che si riverbera simultaneamente davanti e dietro, in tutte le direzioni, in modo che non vi sia altro spazio vuoto se non il momento della pausa musicale.
Le vibrazioni tagliano il reale in segmenti che si riposizionano per attrazione in configurazioni sempre nuove. Un brano suonato diventa un atto onnicomprensivo della coscienza, che contempla il contemplato mentre le proprie dita scorrono sulla tastiera nera nel sogno. Non c’è risveglio nella totalità di un momento, ma una lenta conversione a pensare di essere sveglio.
Una storia vive sempre nel tempo, mentre chi guarda o interpreta sospende per un attimo la propria temporalità per assumerne un’altra. Si gioca su più palcoscenici per viaggiare restando fermi, risparmiando il corpo, che si trova limitato rispetto alla coscienza. Il male di vivere è una condizione che inchioda il pensare a un’unica storia e a un unico tempo, prigioniero di un senso unico e direzionale del pensiero.
A volte, non serve solcare oceani, attraversare vaste pianure o scalare vette e avvallamenti per vedere il mondo. Attraverso il senso che diamo alle cose, possiamo sciogliere il legame con cui nominiamo la realtà, sbaragliando il costrutto storicizzato di noi stessi e liberandoci dal peso della consuetudine. Almeno per un attimo, possiamo sbirciare nel piano metafisico.
Corbellerie si susseguono nella volontà di scrivere, come se ad un certo punto, al di sotto del segno scritto e poi sotto alla carta, s’aprisse un vano immenso in cui perdersi, presi da una vertigine per la mancanza improvvisa di appoggio. Sento da oltre la porta chiamare, senza che vi sia nulla da rispondere. Attendo quindi che la questione si diradi da sola, poiché non sento di essere in quel posto, dietro a quella porta, in quel momento in cui, al mattino, è comparso il sole di fine autunno.