Sullo sfondo inizia a manifestarsi la parola che, caduta dalla voce muta, sobbalza nel vuoto fino a raggiungere il piano della vista. È un ricordo cristallizzato, risalente a un giorno estivo trascorso sulla spiaggia, dove il sale e il vento si mescolano all’umida sensazione del dopo bagno. Un sguardo tra di noi: ci siamo scelti per una vita e il mondo esterno svanisce, avvolto nella condensa dei vapori di un’esistenza alla deriva. Da quel giorno sono emersi molti “volevo che”, ma sono rimasti atoni, bloccati dalla mia incapacità di immergermi nelle emozioni. Ora, mentre il corpo si rinsecchisce in una dolorosa inefficacia, ricordo con nostalgia l’unico gesto fruttuoso del vigore: quello di fendere l’aria correndo.
Per me, il lavoro non è mai stato un obbligo, ma piuttosto una fonte di divertimento: educare mi ha sempre appassionato, e probabilmente avrei avuto consenso in qualsiasi contesto. Solo le circostanze della mia biografia mi hanno indirizzato verso l’educazione degli adulti. Mi piace cogliere nelle storie la trama inconscia e osservare la palude in cui le emozioni altrui si incagliano in comportamenti bizzarri e spesso autodistruttivi. Insegno le forme del cambiamento là dove, di solito, le persone vedono un muro inviolabile di cemento. Nelle pieghe di questa realtà immutabile, sussiste l’immensità della fantasia, che offre la possibilità di ridipingere le radici del reale.
La mutevolezza, insieme alla comunanza, attrae le sensazioni in relazioni che, nella loro costruzione visiva, assumono la forma di grandi affreschi rappresentativi delle gesta umane. Il senso della qualità espressiva che si intende conferire alla creatività indica una direzione che può oscillare tra il bene e il male. In un momento storico in cui tutto sembra ridotto a merce priva di una qualità etica, la violenza appare come il veicolo predominante per qualificare le relazioni tra uomini, cose e natura. Si impone una legge verticale che costringe ciascuno di noi a tentare scalate impossibili per dare un senso al proprio esistere.
La riflessione che cerco nel giogo delle passioni riguarda la possibilità di esistere in un modo differente, un modo di condurre il gioco che non sia dettato dallo sguardo o dalle sue infinite metafore. Un modo di essere umani che non riduca la carne a uno specchio riflettente di uno spirito. In Heidegger, l’atto appare come la parola che indica un salto verso una unità, ma le prefigurazioni non sono vita, e non esiste ancora testimonianza di un altrove. Di conseguenza, il senso di frustrazione pervade la cedevolezza verso la presunzione della cattiveria.
Il dialogo che si diffonde all’interno investe le cellule, modificando nel suo cammino la struttura dell’abitare sé stessi. È un flusso che riverbera nello spazio, inglobando attribuzioni di senso a tutto ciò che incontra. In questo vagabondare si trova l’educazione delle calze spaiate, delle camicie con il bottone mancante e dei capelli incolti. È un sussurro che invita al rimescolamento delle cose certe e all’uso scontato degli oggetti e degli aggettivi. Rimbalzando di nuovo tra i contrari, ci si trova faccia a faccia con il senso cercato, regalando un sorriso per un momento di felicità.
Si sente l’odore del lago mentre parcheggio e mi chiudo nel servizio; se il traffico fosse meno intenso, probabilmente potrei anche udire il suono del vento che scivola dalla montagna fino all’acqua. Vorrei trarre maggiore ispirazione da questo luogo, dove conosco più l’umano che la terra, ma avverto la vecchiaia che desidera altro e si rifiuta di continuare a creare parole. Nel riflesso della finestra scorgo uno sguardo malinconico, che prova dispiacere per tutti quelli che non ce la fanno. Mi dispiaccio anche per me, che non vorrei più fare ciò che non mi va, ma vorrei sentire che il mio tempo è prezioso, sia per me che per gli altri.