La comunità

Caro amico, so che ti trovi in comunità e stai pensando di andartene perché la sobrietà ti spaventa. Fermati un attimo: lascia che i tuoi pensieri non influenzino il tuo umore, ma permetti al tuo sguardo di posarsi sul giardino della comunità, ornato dai colori autunnali. Per un momento, segui la traiettoria del tempo e immagina quanto sarebbe bello vedere il cambiamento dei colori degli alberi fino a raggiungere il vivido verde dell’estate. Solo godendo della natura, il tempo ti offrirà uno spazio in più per la sobrietà, e non è detto che tu non possa scoprire un nuovo piacere in essa. Voglio dirti che comprendo quanto possa essere intenso e talvolta insostenibile il dolore del cambiamento, ma ti garantisco che la pace che ne deriva è un regalo prezioso per te e per la tua famiglia.

Certo, sono solo parole gettate come un laccio, atte a fermare l’intento di tornare nella sofferenza, un male ormai divenuto la terra sicura della propria identità. Questo è in contrasto con un salto nell’ignoto, che può risultare difficile, facendoci faticare per ambientarci e costruire relazioni e affetti senza il mediatore stupefacente che è la sostanza. Per la prima volta, ci si trova soli nel mondo, costretti a prendere decisioni e scegliere un campo da gioco nella vita che rispecchia ciò che si desidera essere o a scoprire chi si è realmente.

La comunità rappresenta sicuramente un luogo in cui la finzione si dissolve; infatti, è arduo mentire ai propri pari, che condividono esperienze e dolori simili. Tuttavia, è questa consapevolezza dello svelamento a rendere il luogo una cura: rispecchiandoci negli altri, diventa difficile evitare una riflessione su ciò che siamo diventati attraverso il consumo di sostanze e alcol. Il contesto comunitario esprime una sua unicità d’esperienza, difficile da vivere nella quotidianità, ma sarebbe un’ottima opportunità per tutti i giovani che si avviano a diventare indipendenti dalle famiglie d’origine.

Attualmente, manca nel contesto sociale una maggiore diffusione della cultura esperienziale della comunità, che è relegata nei luoghi appartati dedicati a persone con patologie stigmatizzanti. Il modello di convivenza comunitario ha, infatti, una forte valenza socializzante, creando un legame reciproco tra l’individuo, l’altro e la natura, come dovrebbe essere in tutti i contesti sociali.

L’interruzione della comunicazione viscerale tra l’umanità, il mondo e la natura, sia animale che vegetale, è ciò che rende malata la singolarità. Persa nell’insignificanza delle cose, questa diventa schiava di un’auto-centratura che si rivolge contro tutti, poiché è perennemente spaventata dall’“altro”. Il singolo vive nel costante sentimento di minaccia, senza affrontare la finitezza della propria esistenza, che è la morte.

Oltre a ciò, ci sono molte persone che vivono in co-dipendenza. Questi individui, pur non facendo uso di sostanze o alcol, assumono comportamenti e pensieri tossicofilici a causa di affetti, amore e legami familiari. Per loro, spesso non c’è l’opportunità di sperimentare la comunanza in comunità né di riappropriarsi della propria identità. Anche quando il familiare consumatore subisce un cambiamento, queste persone rimangono intrappolate in un limbo, in una sorta di terra di nessuno. La colpa per una situazione costruita nella disfunzionalità perdura nel quotidiano, privandole così del benessere derivante da qualsiasi cambiamento.

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