Sono il personaggio che si muove nella parola scritta come un ospite fisso di una tela paesaggistica. La mia storia è probabilmente la storia di molti altri che si ripete nello spazio tempo dei significati umani. Muovo all’interno del possibile che mi concedono le cose che si formano davanti: “il dietro per le persone è un qualcosa che viene sempre dopo”. Nello stesso tempo vengo mosso da ciò che sta davanti in un insieme di significati che mi sembrano venire da una locazione interna al me stesso.
È come rotolarsi nella sabbia bagnata cercando di stare pulito, i significati comuni si attaccano invischiandosi nel groviglio quotidiano. Si accende una luce giallognola che rischiara il contrasto dello scuro al tramonto. Nell’abisso della riflessione giungono i richiami dei giorni trascorsi, che affastellati in più piani appaiono sempre un po’ divergenti. Incontro in questo crepuscolo alcune domande che si ripetono nel tempo, ma non richiedono risposta immediata. Sul bagnasciuga involontario a pochi passi dal divano si estende il modo fantastico dell’immaginazione. In sincrono con il respiro del cane si apre il sipario della novella con i trovatori che accordano il liuto… lentamente scivolando nella incoscienza.
La banale normalità quotidiana è tale perché così la definiamo, in realtà sotto il nostro naso passano costellazioni di mondi in costrutti di senso fuori dal nostro pensare. Il mito non ha mai lascito la casa del tempo, ha convissuto con la propria negazione permanendo negli strati suburbani alla periferia della città. Con uno sguardo infantile si può cogliere l’essere mitologico sopravvissuto a fianco degli uomini e donne che tristemente cercano di negare la propria natura. La violenza o il sopruso che è la stessa cosa mi stringono lo stomaco e mi ritrovo incapace di arginare l’onda del male.
Mi ricordo da bambino un sole caldo estivo amico, sotto cui scorrazzare nei campi senza timore, mi ricordo gli animali che non hanno mai portato un danno alla intraprendenza della fanciullezza. Ora che mi ritrovo barricato in case e uffici con sistemi di sicurezza per il caldo e contro la possibilità di invasioni di animali. Mi sembra tutta una pazzia come in un film dispotico e non so se è finzione o realtà. Questo cupo timore che ci vuole incatenati e dipendenti da oggetti sicuri, da parole rassicuranti, da nuovi Dei resuscitati per l’occasione.
Le pupille si dilatano per lo sforzo nel mantenere l’immagine composta nella fissità, perché è nel fermo immagine che il mondo si rivela. Un piccolo sforzo ogni giorno per dilatare il presente ed imparare a stare in quel nulla che è anche tutto. Soffia un vento tra le tende che smuove l’animo verso i ricordi sparsi negli oggetti. La casa come un rifugio resiste all’aria e sprona il pensiero verso un punto qualsiasi del tempo. Sono solo nel dialogo tra la notte ed il giorno in una confusa configurazione della vita e dei vegetali che sento in affanno tra le mura della città.
Anche oggi si apre il mistero di come la luce dà vita alle cose che incontra, un tocco che apre ad i vedenti lo spettacolo della creazione. Per tutti gli altri probabilmente ci sono altre vie per sentire, odorare, ascoltare i lineamenti del mondo. L’epoché nella fenomenologia cerca la non spiegazione di ciò che appare, ma poi rimane anch’essa prigioniera della razionalità schizoide umana che si deve oggettivare per produrre pensieri su sé stessa. Un tranquillo mattino in attesa di crollare sulle necessità del dovere, imposizione di una serie infinita di abitudini che alla radice rispondono ad i propri bisogni e non al corpo vivo.