Un filo leggero lega una fine imminente, dalla punta pellegrina di una spada. I momenti del dramma, in parte già dettati dalle condizioni storiche indicano una agenda di continua desolazione. Forse il ritirarsi dal conoscere gli eventi può risparmiare l’umore dai bassifondi. Ma: il nascondersi alla fine fallisce nell’azione dello stanare ogni contrario, per riportarlo alla volontà della massa. Il corpo rimane l’unico incastro tra un mondo sognato e quello reale, ed al momento i giochi per le strade sono di una durezza e variabilità incomprensibili. Ritorno verso casa pensando che esiste la possibilità che il nulla abbia già inghiottito i passi conosciuti ritrovandomi nell’ignoto.
Una insolita ironia travolge il senso comune, all’ombra delle piante potate da incapaci che non capiscono il valore delle fronde. Una misera ignoranza che prevale in ogni ceto ha assunto le vesti di una casta protetta e lancia la propria moda nella consuetudine quotidiana. La rassegna stampa improvvisata dal tentativo di una costruzione del senso critico mi occupa parte del mattino. Cerco di disegnare un quadro in funzione di una previsione. Ma il tutto non funziona più a tranquillizzare il tempo che romba tra le mie orecchie e strappa i minuti annichilendoli. Questa corsa che una volta iniziata non ha freni né sosta ma un’unica direzione.
Per alcuni il senso del tempo è una oscillazione tra il caldo ed il freddo, di fatto l’esistenza è una continua oscillazione tra polarità che solo la morte al momento ha il significato di chiudere. Dalle grondaie l’acqua scivola sulle mie visioni riportando il corpo ad una frescura accettabile in questa giornata un po’ triste per la stanchezza accumulata. Il lavorare è diventata una dimensione opprimente in cui il dovere non si sposa con la passione lasciando le pareti insipide e le parole vuote. Solo in alcuni casi il guizzo della compassione mi riporta nella vetta della comprensione.
Una forma di dovere muove il corpo nello spazio che gli è proprio, definendo un perimetro inviolabile e oscuro nella necessità d’esistere. Così almeno sembra il muoversi quotidiano quando manca un senso preciso all’obiettivo. Le novità per un attimo creano un brezza leggera che infiamma la curiosità, ma la vecchiaia ridimensiona la portata del getto ad uno zampillo d’attenzione. Il caldo e l’aria marcita della città “ci danno dentro” a colorare le strade di un aspetto apocalittico, e la gente appare bizzarra in ogni manifestazione d’intolleranza. “Aspetto un bus alla fermata soppressa così il tempo può andare avanti senza di me”.
La banalità che raccolgo, come fiori appassiti dal selciato ormai sterile, mi confondono per la loro complessità. E’disorientante un troppo semplice che sfugge perfino al senso comune, è una immersione nella nullità del niente che si palesa come ovvio. In questa solitudine forzata dalla irruenza estiva che ci espone per le bizzarre forme che siamo. Intrattengo attraverso una vista a chiazze e reticoli immagini che mi porto poi nei sogni, nel capovolgimento del senso onirico in cui la verità si nasconde a tratti in bella vista. Tra i fiori l’erba spicca nella propria resistenza da fante di guerra.
Le varie spiegazioni che si propongono in file ordinate e sequenziali non mi dicono nulla del perché voglio sapere al posto dell’ ignorare. Ci si trova ad essere ciò che si è, anche se, non sempre combacia con la consapevolezza dell’esistenza. Non c’è una via d’uscita emergenziale per rivedere gli eventi. Non ci si stacca dalla propria carne per una differente sostanza inventata. In questo doppio salto carpiato dilungo l’attesa nell’indolenza del riposo, dimentico del vociare e dello scalpitare intorno che la macchina della produzione agita. Sono solo momenti di una riflessione che dilungandosi mi ispira a sognare mondi fantasiosi.