Verso casa Clelia ritrova il cielo che ha lasciato un attimo prima dell’avventura ed entra nella casa cristallizzata nell’epoca chiudendo dietro di se il coperchio. I suoni e le voci sono consuetudini che si radicano nel proprio senso comune del descrivere le cose. Salendo le scale è un inverso scendere nell’utero ovattato dove tutti i pensieri sono immagini contemporaneamente presenti. Avvolgenti e protettivi gli istanti vissuti trattengono le lacrime di Clelia che ancora una volta si sente orfana da un mondo esterno che non riesce a codificare. “Ciao madre”, un cenno dall’altra parte sancisce o riprende l’intima comunicazione nella casa. Dice la madre: “oggi ho lasciato scorrere tra le pieghe delle persiane il racconto di come sono arrivata a concludere il patto con l’animosità dei doveri inculcatomi dalle generazioni di donne. Ho finito di pagare il dazio ad uomini che hanno modellato il tempo sul loro bisogno”. Clelia: “ci sono al di fuori di qui occasioni che possono rivoluzionare il racconto, ma per oggi ho esitato, e sono rimasta a guardare, che una storia passasse oltre, come le ultime sculture di Michelangelo…complete ed incomplete allo stesso tempo…non scolpite per l’eternità…ma per il presente dell’artista”. Due donne in una area domestica mentre al di fuori il rullare dei tamburi della guerra sono un eco del primo movimento della sinfonia di Šostakovič n.7, il passato ritorna nelle sembianze dei nuovi patriottismi che sono simili ad i vecchi. Madre: “il ricatto è l’arma in tempo di pace, basta spaventare per poi proporsi come protettore per comandare. Il nostro tempo intimo è l’unico luogo che permette di esprimere l’identità”. Intorno al tavolo in cucina una serie di gesti sincronizzati e una pentola annerita sul fuco, si spande il sapore della piadina tagliata e riempita con la rucola mista a pomodoro fresco. Un pasto condiviso nella semplice complicità tra chiacchiere e nostalgia nella rievocazione delle fasi della crescita. Tra Clelia e la madre è la magia l’argomento che le accomuna, entrambe da sempre vedono o sentono le cose fisiche in modo obliquo, cioè: per descrivere qualcosa che non si può descrivere; sentono le cose sussurrare la propria verità ed appiano per ciò che sono per la qualità. Per Clelia c’è voluto tempo per abituarsi, infatti da bambina soffriva nel riconoscere le vere intenzioni nei volti, soffriva al punto di avere crisi epilettiche che sparivano quando stava un tempo sufficiente da sola. Non sapendo bene cosa gli succedeva gridava alla madre: “leoni…leoni…leoni!” In quel periodo i leoni rappresentavano per Clelia la cosa più terrificante che potesse incontrare. Alla fine crescendo ha imparato ad addomesticare le emozioni e con esse l’onda dell’angoscia quando il male traspare tra i sorrisi della gente.
Raffaele tornato nel bunker di casa dei genitori si acquatta tra le proprie cose in silenzio ed immobile per prendere la posizione del possesso degli oggetti mentre scorre libero il pensiero. Ancora sovreccitato delle lunghe discussioni sul senso delle parole che affastellano la mente come un acqua che si spande ma non attecchisce da nessuna parte. Riprende il filo dello sguardo con la ragazza all’angolo, e sogna un camminare insieme in quelle vie che al momento giusto si fanno trovare vuote e silenziose. Una vicinanza austera senza intrighi non detti, ma semplice stare nei passi cadenzati e nelle parole cristalline evocate dalla gentilezza con cui due estranei si rispettano. Il proprio mondo appare fin troppo perfetto quando se ne sta rintanato nel bunker, in realtà fuori dal quel sepolcro è nervi tesi e rabbia. A volta una rabbia cieca come quando con un paio di amici ha distrutto o dissacrato una chiesa. Cresciuto con una nonna psicopatica con la fissazione della religione Raffaele ha subito l’umiliazione di dover praticare a forza una cosa non capita, vivendo nella paura che il pensiero peccaminoso fosse scoperto da Dio in persona e per questo sbugiardato davanti a tutti. La rabbia cieca si è sprigionata all’interno della chiesa tirando addosso alle statue sacre tutto il contenuto del bar dell’oratorio fino a quando il devasto è stato raggiunto e la vendetta compiuta. Da quel momento Raffaele si è distaccato dalle pratiche religiose e con l’aiuto del nonno ha iniziato a leggere i testi di filosofia anarchica su cui in parte ha formato una propria idea di mondo, ma non solo. Nella visione di se Raffaele ha scoperto la tendenza verso il male, non come dicevano i latini “assenza di bene”. Ma come ente a se stante, per cui con le basi empiriche della presenza, Raffaele affascinato da questa idea ha iniziato ad isolare le forme concrete del male, fino ad avere la necessità di ‘fare del male”.
Io sono sobbalzato nell’arena delle oscillazioni immateriale e mi ritrovo minuscolo materico intruso di storie scivolate per caso nell’ attenzione. Tendo l’ascolto agli incontri umani che come rette si intrecciano per poi annodarsi in sentimenti. Il flusso che regna il visibile è solo una parte della faccenda eterna, il resto è l’ombra a cui vogliamo dare forma per risaltare le cose a cui poi aderiamo con coscienza e cultura. Non essendo posso starmene acquattato nella penombra mentre i nostri protagonisti decidono tra bene o male. Le memorie dei tanti che compongono uno strato sottile della gravitazione tenendo ancorati al terreno altri racconti non ancora consolidati. Così che come un telaio incessantemente avviato tesse il colore degli spazi anch’io m’accingo a rilanciare un incontro non ancora avvenuto. Essere il testimone può portare con se una responsabilità in quanto non è ancora chiaro se osservare è già un intervenire oppure esiste la possibilità della neutralità. Per quel che si sa finora non c’è una possibilità dei neutralità ogni cosa è collegata da un vischio o collante che tiene insieme una struttura di coscienza. Per cui tornando al sodo della questione io posso in qualche modo a me sconosciuto, avere a che fare con questa storia qui raccontata.
Il nonno di Raffaele sente da tempo il disagio del nipote che asserragliato nel suo bunker disegna le mappe del proprio inconscio con il sangue del conflitto in atto nell’ umanità con se stessa. È la stessa sensazione che vede nei corpi giovani con cui lavora che con caparbia insistenza cercano di eliminarsi e sparire dentro un sogno fatto da uno stereotipo in cui l’effetto della droga è un fattore secondario. Il male è colpire il propio corpo nella profondità dell’essere se, per dilaniare l’identità in rivoli infiniti non più ricomponibili, in questo modo ogni azione è possibile perché insignificante nell’assenza dell’essere se. Il nonno ed il proprio senso dell’educare che con timidezza cerca di portare avanti come una missione senza seguaci ne credenti. Una opera di ricucitura dei filamenti dell’anima dei giovani che non sono più unibili, ma accostabili per frammenti nel tempo di una oasi breve di coscienza di se. Questo continuo e incessante unire il disunito è l’educare a stare senza morire nella frammentazione e nella paura suprema del nulla. I ricordi frammentati del nonno viaggiano attraverso il tempo senza più ormeggi solidi, nella fluidità che l’età matura dona alla memoria quando si tratta di cristallizzare un evento. Nella penombra di una riflessione il nonno distingue nuove possibilità nell’indicare gli oggetti del mondo che ormai hanno preso il dominio rispetto all’originario indicatore. Richiamato al lavoro dal pesante rullo della responsabilità che innesca forti sensi di colpa se semplicemente si vuole stare in una ignavia senza pensieri. Il nonno corre sotto i riflettori della massa giudicante e come ogni giorno dà inizio alle danze, delineando nei solchi scavati del viso le incongruità tra la parola ed il segno. Alcune condizioni di base della consapevolezza di sé sono semplicemente ignorate dai più e per lo più è causa di mancanza gestione di se. Respirare, come e cosa si pensa, ascoltare i segnali del proprio corpo, tutto ciò è semplicemente ignorato in funzione ad una adesione di una descrizione esterna di come debba essere il vivere.
Per Clelia il giorno e la notte non hanno confini precisi come una nuotatrice sospesa tra sopra e sotto il pelo dell’acqua ed è in questa esistenza nell’alternanza che gli oggetti non hanno mai forme definite. Clelia sopravvive grazie alle sfumature l’asciate dalle oscillazioni tra poli opposti in quella che è da sempre il limite del ragionamento umano. Spostandosi tra i mobili e tappeti vari sfiora con la punta delle dita la polvere in sospensione tra cielo e terra e nel mentre salmodiando il canto che richiama: “la luna lassù, un mare nel cielo aramaico, intorno l’ignoto ulula insieme alle fiere in amore, un bambino dorme sospeso, la madre con occhi dorati, sorride al vento del sud”. È forse ora di stendersi nel vano ricavato dall’angolo protetto della casa, dove figure eteree passanti non lasciano traccia nel loro girovagare. Per Clelia cala un sonno oltre la misura del tempo mentre si ricongiunge con la volontà delle striature del muro che da sempre testimoniano l’andare ed il venire dei viandanti.