Ricomporre i cocci (aprile 1)

Riprendo una lenta meditazione interrotta dal sopraggiungere delle tensioni che sfilano sulla linea dei nervi e si fanno coscienza, diventando poi pensieri volatili che una volta liberi si chiamano “cultura.” Il divenire non lascia tregua mano a mano che si invecchia, è una speciosa creatura che si insinua per fare si che crollasse ogni certezza o momento di stasi. Dal nulla al qualcosa come un battito di ciglia sulla fronte della terra che appare divisa dalle altre costellazioni del cielo. Più che meditativo mi ritrovo incupito dentro ad una gabbia che risale alla storia degli antenati, quando hanno deciso di essere qualcosa piuttosto che niente. Ritornare indietro per Eoni scordando luoghi e definizioni per ritrovarsi in ogni spazio, un cappuccino al tavolino sull’incrociarsi di due traiettorie mentre una lieve pioggia smussa gli angoli della tristezza. Mi sento un po’ così come un viandante che non va da nessuna parte, in una incerta decisione che mai si decide a maturare, e, quindi, si rimane seduti sorseggiando l’eterno cappuccino mentre da fuori il tempo scorre come ha sempre fatto. Partecipo ad una riunione e tutta quella agitazione mi irrita lo stomaco. A stento arrivo alla fine, esausto e vuoto come dopo una condanna capitale in cui tutto si annebbia nella gravità dell’ irrefutabile. C’è in queste situazioni una istanza di redenzione, dove i convenuti si ritrovano ad interpretare un rito che assolva la coscienza dal peccato o dal senso di colpa nel sentirsi inadeguati verso un Dio che ormai è velato dalla modernità. Riunioni come messe celebrative in cui le persone trovano riscontro di esserci ancora nella considerazione altrui, oppure riunioni in cui guerreggiare per imporsi e per attenuare una identità debole. Questa danza quotidiana del lavoro si ripete nella mia mente come un disco ad una sola canzone, irriverente verso i nervi sfilacciati dall’uso e… invecchiati dal tempo. Cado in un dirupo mentre da fuori tutto rimane immobile, scivolo dentro un baratro che graffiando toglie la “pelle di dosso”, non vorrei essere qui ma niente riesce a tramutare il sogno in acqua, per cui continuo la corsa o meglio la scivolata. La realtà appare sbiadita passandoci accanto in caduta libera, con le cose inanimate che si animano e sorridono come fiori maturi che da sempre ci guardano dall’altra prospettiva che noi chiamiamo inconscio. Cerco appigli per frenare l’accelerazione ma le mani sono trasformate a vele e catturano il vento in modo da spiccare il salto, quindi mi arrendo e lascio fare alla natura dell’essere quel che vuole in fondo è solo un altro giorno. Per me che già faccio altro scrivere tutti i giorni è una necessità, senza una finalità precisa perché scrivere non è solo un mestiere, ma è disciplina tra logica e arte. La pratica è mettere insieme il caos creativo con la austera metodica di dovere infilare una parola con un’altra di senso compiuto. Nello stesso tempo ascoltare il proprio respiro e fare in modo che l’aria che entra calmi lo spirito e l’aria che esce guarisca il corpo. Nello scrivere a volte subisco un conflitto interno che mi disturba, infatti non so scrivere per raccontare qualcosa in particolare, quando ci provo perché mi viene il dubbio di doverlo fare il risultato è deludente. Mi sono accorto che amo le parole nella loro singolarità e spesso le accosto in una dissonanza come nella musica dodecafonica in cui a risultare emergente non è la melodia ma lo spazio armonico interno o sotto la melodia. In sostanza io scrivo per ricomporre i cocci delle cose rotte in me o in altri non importa, ciò che conta è respirare dentro le cose aggiustate fin che tengono.

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