Il mio meglio (marzo 2)

Il mio meglio è un ritornello che gira nella testa come una stretta a tenaglia tra un bisogno ed il suo contrario. Già pigro nel tendere verso l’ignoto l’acume delle sortite filosofiche sono ora in disaccordo con il corpo che invecchiando non vuol correre tra i prati rimasti incolti ed ancora vergini. Questo tempo un po’ mi spaventa nelle sue sbavature si intravedono le foibe profonde in cui si potrebbe sparire inascoltati. La dialettica al momento è una contrapposizione in cui le tesi per forza si devono scontrare, senza un campo comune il fronte nemico non può che incarnarsi in ogni altro più o meno vicino. La parte destra é zoppicante nel lento camminare verso la parte collinare oltre la città, la quale densa dal brusio della folla che non trova mai una forma composita e stabile nelle sfaccettature dell’ insoddisfazione. Oggi sono in molti i volti delle donne esposte ad un richiamo per un mondo da modificare nel modo discorsivo da intendere il potere. La voce femminile ormai sembra l’unica accreditabile nel mare vasto della contraddizione. Sento il sincopato dei miei passi rimbalzare sulle tettoie spioventi e vecchie del quartiere antico, sono alla ricerca dei libri impolverati che nessuno legge, perché contengono da sempre il pezzo di verità che si spartisce con l’altro mondo oltre la morte. La verità per forza di cose è incontrovertibile altrimenti è una opinione, ed il nostro mondo non è fatto per l’incontrovertibile, per cui si persegue il discorso ipotetico deduttivo lasciando sotto la sabbia la scrittura della verità. La paura è che la verità renda il pensiero immobile, in realtà la verità libera lo spazio per andare oltre il limite del già conosciuto perché è sulle spalle dell’ incontrovertibile che si può sgusciare oltre la cruna del nuovo mondo. Mi aggiro pauroso tra le vibrazioni della notte, dove la realtà muta in qualcosa d’altro ed il battito del cuore viene preso in prestito dai fantasmagorici riflessi dei sogni, immobile nel solito letto scomodo viaggio intorno ad i frammenti del pensiero che sparsi come nebulosa rocciosa si espandono nell’universo. Vorrei essere realista ma non mi riesce, più cerco la storia piantata nel terreno, più mi ritrovo a sciamare via dietro ad abbozzi e colori o frammenti di melodia, la realtà che mi passa sopra come un rullo compressore non si consolida nella carne. Ancora notte e piango la perdita di ciò che sento inesorabilmente perso, una emorragia che non si può fermare. Piango per la paura di sparire nel nulla che questo mondo ha reso l’evidenza estrema del significato dell’esistere. Piango per il mio lignaggio evaporato in una nuvola sopra le pendici dell’Appennino e disseminato senza memoria nei solchi di una terra aspra da coltivare. I miei dai monti sono arrivati alla pianura sopra un carretto tirato ancora da animali ed io sento la lontananza di quel mondo povero ma glorioso e piango per tutti quelli che ora se ne vanno ammassati in cataste di bare anonime con il numero di fila per l’inceneritore. Mi disgusta il sorriso di chi pensando al breve tornaconto di oggi lascia che la memoria si sgretoli in una battuta di spirito. Vedo i vari volti che si susseguono nella carrellata dei quadri scorrenti come finestrini del treno lungo una traiettoria che porta verso la speranza. Vedo una battaglia che i poveri non possono non combattere per sopravvivere alla dittatura mercantile che obbliga a mangiare il pasto di qualcun’altro in un scostamento del possesso che inganna ed induce la violenza tra eguali. Tra le tante cose rimaste sull’Appennino ci sono famiglie che rimescolano la polenta nel solco della tradizione rifuggendo il marciapiede cittadino.

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