Dr. Monchi (febbraio 3)

I libri posati per terra formano una piramide nello spazio in cui un tempo c’era solo desolazione, un cane si aggira, annusa, e trova una sistemazione per dare suono al dormire. Le ore scorrono fendendo il freddo che scivola da sotto la porta, ed un corpo abbandonato si lascia cullare dall’avanzata della tristezza; sono sensazioni che messe in fila stringono un po’ l’entusiasmo per il nuovo giorno che si presenta. Come ogni mattina è quasi impossibile essere reattivo, lentamente il corpo si piega al vivere, e quando ci riesce, il pensiero tracima e innonda anche le periferie, muovendo e facendo sferragliare su i binari l’evento della quotidianità. Da dentro il calvario del suo mestiere il Dr. Monchi sente il “finale di partita”, spesso non sa spiegare il proprio lavoro e soprattutto non sa rendere conto della poca efficacia apparente che l’accompagna. Una sola cosa ha capito bene nella relazione con persone con problemi di dipendenza, di essere significativo per ognuno di loro che ha conosciuto fino nell’intimità, così che egli è importante sostanzialmente per ogni singolo individuo ed al massimo per le loro famiglie con nome e cognome. Nei grandi calcoli della statistica la propria passione sparisce e non rimane che la litania di un eco dalla messa de Requiem e la scomunica della grande scienza. Il Dr. Monchi ha imparato a tirare dritto e si ritiene fortunato che nella propria memoria siano così presenti le vere storie degli uomini e non solo apparati da aggiustare. In sostanza il Dr. Monchi sa che per l’algoritmo il suo lavoro non incide nel diminuire il consumo delle droghe, ma per la propria coscienza i nomi propri degli utenti sono scolpiti nella narrazione emozionale dei cambiamenti della vita. A volte vorrebbe gridare: ok…ti droghi una volta, può essere per curiosa sperimentazione adolescenziale. Ok…la seconda può essere perché la compagnia ad una certa età conta più della propria individualità. Ma…cazzo la terza volta sei un coglione, diventa una dichiarazione d’amore…da lì in poi sei saldato in modo nefasto a significare ogni evento in compagnia di essa. Non ci sono cazzi…una volta saldato l’effetto della sostanza tossica con la percezione di se e dell’esterno a se…si è fottuti…la libertà del pensiero nelle scelte è compromessa. Per cui il resto del tempo sarà occupato a pensare a come ‘farsi’ o a come non ‘farsi’. Va beh! Meglio non esagerare, un po’ chino e a passo veloce, il Dr. Monchi traccia la traiettoria verso il quotidiano, anch’esso non messo molto bene. Oggi che domina la paura come modalità di controllo, il pensare con tutto il proprio corpo è diventata l’unica scelta di libertà…certo non è una cosa di oggi, basta leggere la storia, ma oggi recuperare la padronanza della propria modalità di sentire significa liberarsi dalla costrizione identitaria di uomo come cosa o prodotto di consumo. La furia del divenire ha spazzato via ogni verità immutabile, lasciando sul selciato un umano smarrito in preda alla tecnica come salvezza dalla fragilità e dall’annullamento. Per Dr. Monchi la droga è certamente una tecnica del mondo moderno per rimandare ad infinitum l’angoscia della finitezza del mortale, con le possibili domande di senso che i giovani possano porgere a questo mondo di vecchi(vecchi non di età ma di spirito). Quindi per molti la trappola del consumo è la gabbia del pensiero in cui restare inchiodati fino alla fine, ed essere per questa società solo marginalità silente e a tratti fastidiosa. Anche oggi per il Dr. Monchi è giornata di lavoro, quindi con fatica sale sulla giostra portandosi la ‘schiscetta’ da casa perché oltre alle narrazioni dei pazienti non può più soffrire la chiacchiera al di là della porta verso il fuori.

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