Il camminatore (gennaio 4)

C’è solitudine negli occhi del giovane camminatore, soffre di una forma di diffidenza cronica per tutte le parole che gli sono cadute addosso, in una forma di affermazioni del come bisogna essere ma non si è mai. Quindi sfreccia veloce in tutti i paesaggi possibili senza soffermarsi troppo negli assembramenti, lasciando che le mente rimanga vuota, priva della componente che permette l’impasto del giudizio con le immagini. È un modo di fiancheggiare la vita senza immischiarsi troppo, trovando nella trasparenza una soluzione al dolore intenso, dallo scontro tra i corpi. Una vibrazione dietro la nuca spinge l’accelerazione del passo sulle colline rotonde, quasi verdi per una cronica mancanza d’acqua, si possono cogliere i movimenti dei piccoli animali che vanno via veloci lungo le loro trame in una osmosi indistinguibile tra vegetazione e carne. Se il camminatore coglie tutto questo nell’attimo di sospensione tra un passo e l’altro, a sua volta è colto dal terreno dove impatta il piede nel rilancio al divenire verso lo spazio. Il solo camminare, apre una vastità, nel rimuginare dei pensieri, che aperti al respiro a volte si perdono dietro all’ espirazione, come il fumo per la locomotiva a vapore. Rimbombo dei sampietrini attraversando il centro, mentre la ricostruzione storica si accende tra le mura come i segni del tempo si stampano nelle rughe del volto, per il camminatore è una lenta veglia incuneata tra un presente rappresentato dal riverbero dei passi, ed un altrove ricostruito dalla sapienza dell’immaginazione in cui gli avvenimenti antichi sono il frutto di narrazioni cucite in una veste “d’Arlecchino impenitente” ed un po’ “sarcastico”. Da un leggero autismo è formato il soprabito del nostro viaggiatore che funge da armatura sia da dentro che da fuori, e che con il passare degli anni ha preso il posto della pelle in una perfetta mimetizzazione. Le armature sono funzionali nella guerra ma quando dalla lotta si passa all’amore sono d’intralcio ed è impossibile sgusciare fuori da un qualcosa che si è dimenticati d’avere addosso. Camminare su i sentieri e dirupi è il modo per dimenticare e lasciare andare l’apparato difensivo inutile nell’accoglienza del mondo, così che un filo d’erba ci possa raccontare la storia della rugiada del mattino che viene per stringere un patto d’amore e per poi sciogliersi al sole, e per poi ripetersi l’incanto ogni mattino su questa terra. La falcata si attenua verso l’età che viene contro, con novità e scenari rimodulati sul ritmo delle cellule, che sentono il bisogno di disgregarsi, per tornare alla fonte di un nuovo giro di giostra. Si apre nel viaggio l’epoca dei saluti commossi, quando senza armature si affronta la mortalità del Mortale, sono forse i momenti più sinceri, perché il perdersi non è più pauroso…anzi a tratti è quasi una consolazione..uno sballo senza sostanze dentro al virtuale ricomponimento di allucinazioni, mentre si prende il te nella pausa dell’andare. In questo scrivere i personaggi sono veline inconsistenti come il protagonista stesso, solo una spruzzata di acquarello sul fondo del paesaggio semi vuoto in cui risalta il senso negativo della storia…il mal celato che dall’ombra di un cipresso, si stende in un abbraccio verso le linee sonore dei parlanti. Non è che il camminatore sia cieco e sordo alle istanze sociali, le quali tutto intorno si dispiegano come un esercito in parata, ed il lamento segue lo stridio del progresso che non è altro che ritinteggiare il vecchio…ma il camminare via…è restare leggeri…per sopravvivere…in una forma meditativa del corpo che permette di resistere alle amenità della corruzione.

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