La corsa verso un traguardo, è cominciata mentre me ne stavo a colazione e per effetto domino poi, non ho più visto un traguardo venirmi incontro, perché stavo sempre da un’altra parte. Ricucire gli strappi mi viene meglio così a bordo pista mi accontento di guardare chi corre, carezze e baci scuotono il torpore del primo mattino, mentre da fuori arriva l’aria gelida che preannuncia una nuova stagione del freddo. Mi aspettano come ogni giorno i volti che passeranno delusi per le risposte non ricevute, ma d’altronde come è possibile gareggiare con gli stupefacenti che già nel nome sembrano dire “ma dove cazzo vuoi andare’. Chi consuma droghe per un motivo od un altro è per contrastare un dolore che è profondamente legato “al starsi sulle palle” per cui cosa gli racconti? “Sopportati un po’ di più?” Va beh…niente…un po’ di cazzate al vento, a volte vorrei parlare seriamente di questo problema, ma non mi viene, è come se fossi travolto dalle mille narrazioni incarnate che come un treno sfrecciano imprendibili, lungo quell’asse inclinato del mio modo di guardare il mondo che mi lascia sempre fuori in un non luogo ad attendere l’inatteso. Il vapore del giorno si alza oscurando i vetri e nella luce soffusa del sole pallido gli interni sembrano umide caverne, sono saluti radi che ogni tanto si odono da oltre la recinzione, sembra che la gente abbia smesso di guardarsi e una nebbia di continua diffidenza avvolge i vari percorsi umani. È stancante guardarsi perennemente le spalle mentre la bellezza si nasconde nell’ opacità degli sguardi, smarriti dentro la bolla della perdita per le continue ondate di annichilamento dell’eterno, il Dio che oggi viene paventato è privo del fascino della resurrezione, un oggetto nelle mani oggettuali di esseri privi della visione della vastità che sta innanzi. Sono tutto orecchi mentre mi sbraccio cercando di farmi notare nella folla pelosa che varca i cancelli della fabbrica, come muli avanzano verso un destino di produzione, senza capire dove vanno a finire le idee man mano che il lavoro avanza. A volte dalla catena si eleva un sermone che non c’entra nulla sul momento, ma poi ripensandoci si inverte la rotta e qualcosa si capisce di tutto quel baccano tra montare e accatastare. Andavo in motorino alla mattina presto sulla strada dissestata dove le fabbrichette si stendevano uguali, posto abitato solo al suono della sirena del mattino e della sera poi solo i guardiani abbruttiti da caffè e alcol. Ci rimanevo in quel luogo con la morte nel cuore, facendo mansioni ripetitive e stranianti per quel che era il mio modo di pensare. Ora che l’immaginario ha preso il sopravvento attraverso lo schermo nulla è mutato per il corpo che rimane in appalto ad i monopoli del capitale produttivo, mentre le menti vengono munte dal suono della libertà immateriale. Prima domenica di dicembre con la pioggia che si fa sentire dalle tegole di un tetto vecchio e di solito abitato da piccioni stanziali, leggo il giornale che mi dice o suggerisce una mappa per il mondo, onda anomala nell’artico, un vulcano spara a quindici kilometri d’altezza un rutto gigantesco, di conseguenza i giapponesi temono uno tsunami, e via via altro che si condensa nel mio neurone interpretativo. Mi rivolgo al cielo che vedo di rado, per via della forza di gravità, che ha reso il capo pesante, con tendenza a formare una gobba verso i piedi, ormai credo che riconosco le persone non dagli occhi ma dalle scarpe, è così che il tempo scorre rimpicciolendo il mondo in funzione dei sensi che si restringono intorno agli organi vitali.