La fede nel cambiamento

Nella parte della terra in cui nessuno permane, perché fuori dai percorsi dell’ ontologia, le cicale friniscono in silenzio mentre altri dormono. I fiumi spingono intorno le anse che sovrastano gli argini per uscire dall’ordine costituito; forme anarchiche della natura che con la lentezza di chi domina da sempre si sottrae all’ordine formale del linguaggio. Come ogni rituale che si rispetta il risveglio dal sogno è puntuale al suo manifestarsi, ed invecchiando il passaggio di stato si affievolisce nella sua caratteristica duale, ed i punti con il tempo si uniscono formando il volto più amato. Oggi tre tipi stanno lavorando sul tetto e mi chiedo se la loro prospettiva del mio risveglio sia diversa dall’apertura onirica oltre la quale ancora navigo mentre il loro martellare si trasforma in immagini che resistono alla realtà del mortale. L’indomani nessuno ha visitato il tetto di casa a parte i piccioni, ma anche loro cercano anfratti perché il sole appare come un nemico che voglia farla finita con il vivente. Passando nella penombra, dove tutti: uomini e animali, si accalcano per sopravvivere e le produzioni dei discorsi sono lievi sostegni alla motivazione verso una sopravvivenza disperata, con parole che ormai sono prigioniere nei loro significati ed incapaci di dare il sollievo che il suono un tempo portava attraverso il mito. Prigionieri nelle nostre casa conduciamo vite appisolate lungo il confine della memoria teso tra un punto e l’altro del nulla o nebbia che trascende il filo di giuntura; sei tu che mi chiami dall’altra parte? Sei tu che canti mentre attorno si fa radura e poi essiccamento del suono? Si forse sono sempre io che di qua e di la rincorro le poche parole che utilizzo come palle da giocoliere mentre fumo il fuoco fatuo di una sigaretta degli anni cinquanta quando ancora non erano cancerogene. I tempi si possono dividere in quadranti basandosi sulle particolarità che ogni decennio ha lasciato esposto nel perdurare del ricordo. Per esempio le giacche imbottite anni ottanta, telefoni enormi con antenna portatile anni novanta, le varie pettinature che hanno solcato i cambiamenti nei decenni fino ad oggi. Questo per dire che il tempo forse è solo una caricatura di una immagine sfuocata fino al tempo in cui l’ultimo superstite ne ha il ricordo, poi il mare rimescola la sabbia della spiaggia e per un attimo tutto sembra nuovo per incrinarsi l’attimo dopo nel sopraggiungere di altro mare. Le orme rimangono sigillate dal passaggio sulla riva in una sola direzione come il saluto che svanisce nel cenno d’assenso, l’amicizia si rifugia nello spazio del non giudizio lasciando che sia il vento a muovere le sensazioni, ti vedo da lontano mentre con il mio cuore in mano te ne stai a mezzo dell’onda che ricopre metà del corpo, vorrei essere sempre presente ma la vaga compattezza dell’animo sfugge mano a mano che si desidera qualche cosa. Il racconto è uguale a se stesso nell’immaginario condiviso, un noi che si allontana sullo sfondo mentre un fermo immagine cattura l’attimo in cui la brezza sposta una ciocca di capelli tra le ciglia e parte del viso ed un guizzo del collo accattivante contrasta l’attimo. Ci sono solitudini in cui come oggi sono costretto a riprendere quel filo del discorso delle cose fatte e perse nella masticazione delle interpretazioni altrui, sento la sofferenza montare da dentro lo stomaco e avvelenarmi la testa per essere racchiuso in una gabbia in cui i giudizi anche se involontari arrivano a costruire il senso di una imposizione. Quindi oggi piango quei compagni di viaggio che non ci sono più e a loro modo hanno condiviso i sogni per la fede nel cambiamento e come me ora stanno in silenzio perché i rumori invecchiando diventano sempre più fastidiosi.

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