Una continua corsa per rimanere in equilibrio tra cielo e terra mentre intorno si sgretola l’immagine consuetudinaria fissata dai ricordi, ancora dopo tanto tempo è difficile capire come funziona questa modalità di essere se stessi e non altro. Mi alzo per chiudere le ante in legno per il sole che già si fa prepotente e si vuole prendere lo spazio in cui me ne sto acquattato, è un mese senza acqua che prefigura catastrofe mentre tutto continua senza riflettere che così non è più possibile continuare, adagio riscuoto un significato a questa luce che richiara il mio modo di vedere ziglinato le cose fisse della natura. Una città la mia che sonnecchia nelle imprecazioni e a volte fa la voce grossa con il pericolo lontano, ma quando soffre veramente lo fa privatamente in un quasi senso del pudore per le piaghe esposte, la tradizione che cerca di mantenersi nonostante il mischiarsi delle razze con in testa paesaggi estranei, un tentativo a volte puerile di mantenersi nell’ identità antica. La frenesia con cui viene percorsa nelle vie non lascia scampo al mutamento che inesorabile si stratifica nelle consuetudini e nel linguaggio che contorcendosi si adatta come un vestito del mercato in saldo. La città che chiude la sera con il ronzio degli ultimi venditori di fiori che stanno al semaforo come le collezioni di francobolli nell’album apposito, e per chi sa guardare dai marciapiedi spuntano i passi di chi non c’è più ma fatica a lasciare questo mondo per le altre possibilità. Si chiude il cinema all’aperto per aprire le danze della notte dentro ad i luoghi semi bui per privatizzare le moine che sono uguali per tutti ma nell’ombra tutto diventa unico.